Sarà che ha ragione Vicio, compagno di scampanellate a orari
improponibili e albe viste insieme. Di interminabili passeggiate in bici, di
riflessioni, di idee, di discussioni, di avvicinamenti e allontanamenti. Di suonate e versi. Di vino e poeti. Ha
ragione, Vicio: non so elaborare il lutto. Non sono in grado, ho sufficiente
onestà intellettuale da riconoscerlo. Non so se esista, effettivamente, un
metodo. Ma la realtà va accettata. A questo punto, con serenità, anche.
Passano i mesi, si alternano stagioni. Non ci sei più. Nessuno
può farci niente. Nessuno può fare altro, per me. Tutti hanno fatto tutto e
dato tutto quello che umanamente si
possa dare. Me lo devo tenere e basta, questo dolore, questo masso dentro.
Passano i mesi, passa il tempo. Più passa, più realizzo il
vuoto che hai creato. La voragine, che non c’è niente che possa colmarmela. Giornate
sembra addormentata. Poi si sveglia, di colpo. Parte dalle gambe, non le sento
più, poi sale e lo stomaco si chiude, poi stringe il cuore – forte, lo stringe –
da gridare “basta, me lo scoppi, così!”. Non si arresta davanti a niente, fino
a prendermi la testa. E allora mi sento impazzire. Dove sei? A questo punto finiscimi,
ti prego. Mi ritrovo disperata, senza via di uscita, con la sensazione che non
ci sia più niente da fare qui. Che non ci sia niente per cui valga veramente la
pena. Dimmi come posso fare. Dovrei lasciarti in pace, forse è cieco egoismo. È
possesso. Ma non posso dimenticarti, non voglio. Non posso credere sia
successo davvero a te.
Io li vedo, i tuoi occhi, me li ritrovo davanti. Anche ora. Ti
vedo quando inavvertitamente mi trovo assorta in quelli di qualcun altro. Li
vedo quando mi guardo allo specchio. Continuo a cercarteli.
Ultimamente mi vieni a trovare, di notte. In un tempo
sospeso facciamo cose semplici. Come era. Parliamo, a colazione, mi spalmi la
marmellata su una fetta biscottata, salgo in macchina, scoppio a ridere perché
chissà come ti è venuto di metterci dentro quel dannatissimo deodorante, che
ormai non sappiamo più come liberarcene. Apro i finestrini. Rido, ridi. Ci perdiamo
a guardarci. Sorridiamo. Ci perdiamo l’uno nell’altra. Poi mi sveglio. Ed è inverno.
È inferno.
Non è ebraico, non è sano, non è razionale, non è giusto,
non è sopportabile, non è tollerabile, non è giustificabile. Mi riempio le
giornate, di impegni, di volti. Ma, onestamente, lucidamente, niente importa,
non c’è nulla che mi interessi davvero. Realizzo che, in fondo, faccio cose che
non vedo l’ora di poterti raccontare, di poter condividere con te. Chi mi ama
inizia a malsopportarti.
Qualche sera fa, a centinaia di chilometri da Milano, persone
che non vedevo da un anno mi hanno chiesto di te. Non hanno saputo niente e con
una naturalezza da mettere i brividi mi hanno chiesto dove fossi. Perché non
passa questo dolore, perché non si affievolisce, perché si spalanca e si
espande sempre di più? Come faccio, senza i tuoi occhi? Non
mi fanno più dormire.