mercoledì 13 novembre 2013

Il genio

Ma come può sapere cos’è, il bosco d’autunno, chi vive in città? Come può sapere com’è? Come può  immaginarne i colori, gli odori, le forme, le luci, le vite, gli spazi, gli orizzonti, le presenze? E come ci si può rassegnare a vivere senza?

Assenze, presenze, colori, odori, umori, una storia d’alpinismo: ‘La prima neve’ di Andrea Segre dagli occhi passa nelle ossa ed esplode nel cuore. Con forza, con grazia, con violenza, anche. Con i vuoti e i pieni. Talmente bello da urlare al miracolo.

Ho dato via i ramponi. I miei. Li ho regalati a Nicco, glieli ho infilati a tradimento in macchina di ritorno da Genova, dopo aver moderato l’incontro col Re della goulotte. Di quella goulotte. Non ho voluto glielo dicessero prima dell’intervista ma lui ha capito lo stesso, mi ha scritto il giorno dopo. L’ha sentito appena ho messo piede in sede, come fiutano i selvatici. Vedere il cuore dagli occhi, ascoltare i non detti, conoscere da sé.

Gli Oracoli di Ulisse, era una tua proposta. Ci sono tornati, di sabato, i due Lollo. Come ci fossi stato anche tu, ci dicono. Voglio imparare a saper stare sulla passerella. Comunione. Alpinisti.

lunedì 21 ottobre 2013

Senza fine

Un anno senza. Bamboline, catene di rinvii, corde. Non tanto il machard "ma il barcaiolo Ci', cristo! Almeno quello, almeno per le doppie, fallo!", sfuria Dan. Avete ragione, avete tutti ragione ma i nodi intanto continuo a non farli. E non mi sono più iscritta a inglese. Non ho più fatto i lavori in casa. L'alga spirulina sì, l'ho presa, ma secondo me ti sbagliavi. C'è stato un Natale che non è stato Natale e un Pesach che è stato Pesach. Un compleanno da dimenticare. Due, anche il tuo. Al Ghetto ormai sono di casa. I bambini sono cresciuti (e continuano a farlo). "I funerali di Togliatti" di Guttuso e la "Cariatide blu" di Modigliani. Chaim Potok. Un film bellissimo visto al cinema tre volte (tutte da sola, ci tenevo). Ho ripreso a guidare. Poi Roma, tanto, tante volte. Mi sono circondata delle persone di cui avevo voglia. Sono stata bene, anche. Si sono rafforzate amicizie. Ho conosciuto gente nuova. Ho scelto cosa tenere e cosa lasciare andare. Cosa proseguire e cosa smettere. Ho imparato ad apprezzare e a trovare il tempo. A correre meno. A darmi di più. A fare quello che voglio fare. O almeno a saperlo mettere a fuoco. Ho odiato la montagna. Di un odio cieco, ho sofferto. Poi ci sono tornata addosso, come una figliol prodiga.

Ho provato emozioni fortissime e anche il nulla più totale, in quest'anno. Ho toccato la voragine e, a volte, ne ho potuto misurare il confine. So cosa fa il dolore, cosa porta con sé la morte. Ormai non dormo più bene. Sogno pochissimo e ho praticamente smesso, ad occhi aperti. Ho rivisto il mare. Non ho più paura dei pipistrelli. Dell'acqua sì, anche del buio e dei bivacchi (ma l'ultima volta sono stata bravissima). Con tuo fratello, per sistemare casa tua. Non ce l'abbiamo fatta: strano, senza te, tutto estraneo. Allora ho aperto l'armadio e sprofondato il viso nelle tue giacche a vento.

Ieri sera, con l'Hidalgo, davanti al pc si parlava del Bianco e dell'Aiguille. Ci siamo messi a cercare foto online, voleva farmi vedere vie. Sei saltato fuori: a un tratto, ho visto le foto della tua uscita in Friuli. Cos'è il destino, il caso, alle volte: Google ci ha fatti finire su un sito, che a sua volta ospita diversi blog. Siamo finiti senza rendercene conto in quello di BD. Ipnotizzati - saliva come un dannato, BD, e le foto sapeva proprio farle -, sei spuntato attaccato a una parete. Ho fatto un salto sulla sedia, l'Hidalgo pietrificato. Ho sorriso, ho gridato dalla gioia, ho inoltrato i link a tuo fratello: ancora un tesoro. Non ci sei più, e neanche BD, ma ci avete fregati di nuovo. Senza fine, la la la la la la, la la la...

giovedì 3 ottobre 2013

These days

A volte ritornano. Col caschetto, la corda, la daisy chain. A dormire presto, il venerdì sera. Io e l'Hidalgo. Con un gran groppo alla bocca dello stomaco. Andiamo perché è ora. So meglio cosa è stato. E quanto m'è costato. Serena, viva. Sento la roccia, calda, sotto le mani. Mi avvicino piano, con rispetto. Aderisco a lei, con soggezione. Mi sembra di sentirla respirare.

Sale veloce l'Hidalgo, dopo poco sparisce. Fa la via. Resto sola. Piano, piano, i muscoli che tirano. La schiena, le braccia. Mi ricordo delle gambe: "Puntale! Punta le gambe, Ci, o ti sfianchi!'", mi gridavi, da giù. Sento il respiro più corto. Mi cerco. Inizio a tirare. Salgo.

In sosta. Uno strapuntino su cui ci stiamo a malapena seduti in due. C'è il tuo amico adesso con me. Voglio un bene dell'anima ai suoi occhi buoni. Facciamo due conti: ora facciamo settantasei anni in due. Ci siamo conosciuti che ne facevamo sessantasei. Gli sono da poco spuntati dei bellissimi fili d'argento tra la barba.

"Allora. Voglio sentire da te, com'è andata lassù", mi fa. Glielo dico. Ripercorro, ricostruisco, ricordo: mi spunta addirittura un sorriso. Ripenso poi a come non avrei voluto vederti e invece. Mi viene anche da piangere, dopo. Il cielo cambia, mi ricordo della parete. Non voglio scendere. L'Hidalgo si rimette in piedi. Rido. Salgo. Tiro. Arrivo. Chiudo.

sabato 13 luglio 2013

אמת

Sarà che ha ragione Vicio, compagno di scampanellate a orari improponibili e albe viste insieme. Di interminabili passeggiate in bici, di riflessioni, di idee, di discussioni, di avvicinamenti e allontanamenti.  Di suonate e versi. Di vino e poeti. Ha ragione, Vicio: non so elaborare il lutto. Non sono in grado, ho sufficiente onestà intellettuale da riconoscerlo. Non so se esista, effettivamente, un metodo. Ma la realtà va accettata. A questo punto, con serenità, anche.

Passano i mesi, si alternano stagioni. Non ci sei più. Nessuno può farci niente. Nessuno può fare altro, per me. Tutti hanno fatto tutto e dato tutto quello che umanamente  si possa dare. Me lo devo tenere e basta, questo dolore, questo masso dentro.

Passano i mesi, passa il tempo. Più passa, più realizzo il vuoto che hai creato. La voragine, che non c’è niente che possa colmarmela. Giornate sembra addormentata. Poi si sveglia, di colpo. Parte dalle gambe, non le sento più, poi sale e lo stomaco si chiude, poi stringe il cuore – forte, lo stringe – da gridare “basta, me lo scoppi, così!”. Non si arresta davanti a niente, fino a prendermi la testa. E allora mi sento impazzire. Dove sei? A questo punto finiscimi, ti prego. Mi ritrovo disperata, senza via di uscita, con la sensazione che non ci sia più niente da fare qui. Che non ci sia niente per cui valga veramente la pena. Dimmi come posso fare. Dovrei lasciarti in pace, forse è cieco egoismo. È possesso. Ma non posso dimenticarti, non voglio. Non posso credere sia successo davvero a te.

Io li vedo, i tuoi occhi, me li ritrovo davanti. Anche ora. Ti vedo quando inavvertitamente mi trovo assorta in quelli di qualcun altro. Li vedo quando mi guardo allo specchio. Continuo a cercarteli.

Ultimamente mi vieni a trovare, di notte. In un tempo sospeso facciamo cose semplici. Come era. Parliamo, a colazione, mi spalmi la marmellata su una fetta biscottata, salgo in macchina, scoppio a ridere perché chissà come ti è venuto di metterci dentro quel dannatissimo deodorante, che ormai non sappiamo più come liberarcene. Apro i finestrini. Rido, ridi. Ci perdiamo a guardarci. Sorridiamo. Ci perdiamo l’uno nell’altra. Poi mi sveglio. Ed è inverno. È inferno.

Non è ebraico, non è sano, non è razionale, non è giusto, non è sopportabile, non è tollerabile, non è giustificabile. Mi riempio le giornate, di impegni, di volti. Ma, onestamente, lucidamente, niente importa, non c’è nulla che mi interessi davvero. Realizzo che, in fondo, faccio cose che non vedo l’ora di poterti raccontare, di poter condividere con te. Chi mi ama inizia a malsopportarti.

Qualche sera fa, a centinaia di chilometri da Milano, persone che non vedevo da un anno mi hanno chiesto di te. Non hanno saputo niente e con una naturalezza da mettere i brividi mi hanno chiesto dove fossi. Perché non passa questo dolore, perché non si affievolisce, perché si spalanca e si espande sempre di più? Come faccio, senza i tuoi occhi? Non mi fanno più dormire.

lunedì 13 maggio 2013

Stelutis Alpinis

Succede. Anche quando pensi di non essere pronta. "Da' retta, Querida: quando si dice 'forse', si è già innamorati": prima di ripartire la mia Sorella nell'arte mi lascia con un bacio in fronte e la promessa di prendermi cura di me, di mangiare, di ridere tanto, di andarlo a trovare presto, di studiare le declinazioni dei verbi e di fare "chaim", di fare "vita".

Accendo il pc, mi telefona la mia amica. Ti guardo mentre cammini, di spalle, col tuo cappellino rosso e gli scarponi: c'è la neve intorno e un panorama mozzafiato di quelli che ti toglievano il respiro, davanti. Momenti mi squarci il cuore, altri mi scappa da ridere, come quando ripenso ai tuoi caffettacci tremendi e agli accessi di testardaggine. Chissà se avresti voluto che ti portassero via, da dove ti ha inghiottito. Non sono venuta a salutarti, non ho voluto vederti chiuso in una bara. Ne parlo con lei, ci sentiamo una cosa sola.

"Se un mattino tu verrai fino in cima alle montagne troverai una stella alpina che è fiorita sul mio sangue. Per segnarla c'è una croce, chi l'ha messa non lo so. Ma è lassù che dormo in pace e per sempre dormirò. Ma è lassù che dormo in pace e per sempre dormirò.
Tu raccogli quella stella che sa tutto del tuo amore, sarai l'unica a vederla e a nasconderla sul cuore. Quando a sera sarai sola non piangere perché nel ricordo vedrai ancora tu e la stella insieme a me. Tu e la stella insieme a me".

lunedì 1 aprile 2013

Quando senti il sole

"A costo di appenderti e di tirarti su io". Anche se mi ha sfondato il cuore?, chiedo al telefono al mio amico da Roma, a cui ha portato via il padre. "Te la devi riprendere o non ne esci più", mi dice mio babbo, anni di soccorso alpino e amici visti inghiottire. Lo sento da me, che è ora di tornare a sentirmela addosso, la montagna. Di fare i conti contro la roccia, di urlarle contro e di riacquistarne fiducia. Come di colpo, nel mezzo di una mattina di sole, guardandomi allo specchio: richiamo, bisogno di fisicità esclusivo, di lasciarsi penetrare. Anche se mi basta pensarla per sentire ancora dolore. Anche se no, non la posso perdonare. Riparto dalle mie, infatti: affetti, silenzio, aria, nodi alla corda. Le mani, la magnesite.

Entra Pesach, esco dal mio Egitto ed è bellissimo. Capisco finalmente quello di cui voglio occuparmi, di chi voglio circondarmi. Poi arriva finalmente anche Shabbat ma Milano perde Jannacci. Ci sale una gran voglia di trovarci a cantare, andiamo dall'Hidalgo. Cominciamo a farlo dalla tromba delle scale: "E allora sarà ancora bello quando ti innamori, quando vince il Milan, quando guardi fuori...". Racconto di un primo maggio di qualche anno fa, quando Enzo ha improvvisato un breve concerto alla palazzina Liberty. Lo stesso angolo di Milano dove nel 1974 ha suonato insieme ad altri per festeggiare la vittoria al referendum per il divorzio. Andarlo a salutare ci è sembrato doveroso.

Entra nel vivo anche l'ultima fatica dell'Errante, che esce in settimana. Due anni di sudori e notti in bianco, hard-disk scarrozzati in giro e testate nei muri, riunioni e discussioni, crisi e pause, litigi e comunioni. Alla fine, è fatta. "E non ci credi ancora. Ne sei venuto fuori e non ci credi ancora. E c'hai la pelle d'oca e non ci credi ancora".

martedì 19 febbraio 2013

Purim

Ti vedo, d'un tratto. Davanti ai miei occhi. Mi sorridi ed io cerco di guardare nei tuoi, venendoti incontro. Sei vestito come l'ultima volta. Allora non è niente!, mi dico, "Sei tornato!", ti dico. Ma allora rientra la realtà. Grido, come non potendo fare altrimenti, e mi sveglio seduta sul letto. Ho svegliato anche l'Errante, che mi cinge con un braccio. Ho svegliato Sansone, che arriva e mette il muso nel palmo della mia mano, che penzola dal bordo. Resto immobile, stesa su un lato. Guardo davanti a me, poca luce filtra dalla tapparella, penso che non passa.

Ultima settimana di campagna elettorale, la più brutta di quelle che ricordi. In compenso, per la prima volta e finalmente, voterò a Milano. E la cosa mi emoziona. Tra chi parte per Eretz, chi si cimenta con la Meghillat, chi prepara le Orecchie di Aman, anche Purim è alle porte. È già Purim. Il sovvertimento delle sorti. Arriverai primavera, ah se arriverai.