lunedì 19 novembre 2012

Jewish & the city

"Perché hai preso i biglietti per quattro quando siamo soli io e te?" - "Per avere uno spazio vitale, Querida. Ora stai buona che devo godermi anche gli odori, di questo film". La mia sorella nell'arte mi viene a prendere fuori dalla redazione e mi porta al cinema. Siamo reduci da giornate difficili, che ci prendono la testa e la bocca dello stomaco: nervi da tenere a bada, persone che non avresti detto mai che mostrano il lato peggiore di loro stesse e più miope; partigianeria fine a se stessa e parole lanciate come pietre senza un minimo di retroterra culturale. Non parlo mai di cose che non so e nelle discussioni lo ammetto serenamente, quando accade: Israele ha risposto ai razzi di Hamas e da giorni mi porto addosso questo malessere che riesco a condividere solo con pochissime persone. Che non parlano a sproposito, conoscono appieno la materia, ne soffrono e ragionano con cognizione di causa - anche a costo di feroci discussioni -, che magari non la vedono come me, non la sentono come me, ma che riescono ad esprimere le proprie opinioni con rispetto e con volontà di capire. E il confronto diventa allora davvero costruttivo e, pur nella ricerca di responsabilità, nessuno sente a prescindere la necessità di dover difendere nessun altro: perché in genere si difendono i colpevoli. E in questo caso ciascuna delle parti sente di aver le proprie ragioni. Per il resto trovo sia assolutamente condivisibile il fondo di Pier Luigi Battista comparso sul Corriere della Sera sabato scorso: "Le bombe sono tutte sporche, come la guerra. (...) La tragedia di Gaza non è senza responsabili".

Il concetto di "spazio vitale" mi riporta alla mente gli ultimi sessant'anni di Storia. L'Errante è partito, non ce la faceva a stare lontano. Per un attimo mi torna in mente la sua mamma, quando d'istinto mi ha aperto il frigo per controllare gli scomparti mentre io non capivo dove volesse andare a parare. I miei amici intanto al telefono e via mail mi raccontano di rifugi e sirene, di riservisti richiamati dal kibbutz, di persone a faccia in terra come riflesso incondizionato. Sull'altro versante, ancora altri scempi. Mi torna in mente il "bubele!" (lett. "tesoruccio!") dei nonni e che domenica il mio moré  mi ha detto di non aver mai sentito, nemmeno tra gli ashkenatzim. Allora sono entrata in libreria, la panacea di stasera si chiama Mordecai Richler, 'Quest'anno a Gerusalemme'(Adelphi):
- "Myer, nelle tue notti insonni, non pensi mai che è un peccato che noi quattro non abbiamo fatto aliyah insieme?"
- "Per poi vivere in un kibbutz? Jerry avrebbe rubato le uova sotto il sedere delle galline e sarebbe andato a venderle per la strada".
- "Non doveva essere per forza un kibbutz. Avremmo potuto fare affari insieme a Tel Aviv".
- "Ci sono stato, grazie tante. Se ci vai, non dimenticarti di portarti dietro i panini. Oppure non mangiare niente se non nei ristoranti arabi".
Ecco, basta investirmi di parole: non ditene altre, che non siano d'amore.

mercoledì 7 novembre 2012

Nuotando nell'aria

Devo alla libreria Luxemburg di Torino profonda gratitudine per avermi fatto scoprire Aharon Appelfeld. Quello è ormai uno dei miei posti dell'anima. "Appelfeld? Il più grande - mi dice il mio amico Angelo - Grossman, Yehoshua... Vedrai, niente a che vedere, un'altra cosa". Da lì a breve scopriamo che avrebbe partecipato a Torino Spiritualità: purtroppo, non ce l'abbiamo fatta ad esserci, per la serata in programma alla Cavallerizza Reale. Così ho iniziato, a mo' di consolazione, il suo "Storia di una vita": uno dei libri più belli mai scritti. Intenso, talmente forte da sentirtelo sulla pelle, da sentirla tua quella testimonianza, uno straordinario esempio di letteratura che si fa bene comune, patrimonio collettivo, esperienza universale, profondamente umana eppure assolutamente intima. Altro dal resto, letto e scritto. Si sente il respiro, è carne viva la scrittura di Appelfeld.

Pagine su pagine, di un progetto che ormai è tela di Penelope, di vita presa dagli eventi, assorbita dai pensieri, dalle decisioni da prendere. Resto qua, comunque. Anche ora che Roma s'è presa l'Errante. Glielo affido come fossero i miei occhi. In fondo, l'Errante fa comunque l'errante, cambia niente, mica. La bella mostra di Guttuso: "I funerali di Togliatti", il "Padre Giotto", "Gott mit Uns". Poi il Ghetto e quell'aria di casa, i pranzi da "Notta Betta". Milano. E non è facile, dovresti credermi, sentirti qui con me. Cos'è che manca?