domenica 29 aprile 2012

Le mie parole

Il Cinastik non c'è più e neanche la libreria Oberdan. La casa di corso Garibaldi non accoglie più nessuno ma in quella di fronte le persiane sono state aperte, stamattina, come sempre. Le gambe che tremano al primo colpo d'occhio in centro, gli occhi che fanno come vogliono dietro la facoltà di Lettere: strada deserta, porte spalancate sui colli e una melodia argentina che riempie il resto. Quattro anni vissuti intensamente, ricordi in ogni angolo, facce perse di vista e ritrovate, quell'amore tanto forte mai più provato. Poi sette (sette) anni di vuoto, come irreversibile. E, come di colpo, il ritorno dove tutto è cominciato: per riannodare fili, riordinare tasselli, chiudere il cerchio, scoprire che in fondo è un gigantesco puzzle.

Si chiude stasera a Perugia il Festival Internazionale del Giornalismo. Una delle esperienze più entusiasmanti, emozionanti, divertenti di tutta la mia vita. Un'occasione di crescita umana e professionale.
Grazie a tutti, per davvero.

venerdì 13 aprile 2012

La traccia aperta di una ferita

Cambio di stagione o congiuntura astrale, stanchezza o il fatto che a Roma c'era caldissimo e a L'Aquila il solito inverno pieno, a Milano è piovuto come non ci fosse domani mentre a Torino sono stata spazzata da un vento alpino che ciao. Sarà quel che sarà, da una decina di giorni mi porto addosso una mezza influenza, un'infinità d'acciacchi e il divieto assoluto di uscire e stancarmi, almeno per un altro paio di giorni.

Cavalieri erranti, sorelle nell'arte e nella vita, compagnie di viaggio di varie latitudini si avvicendano tra le mie pareti. Giorni di Lega e di esodati, di Borse a picco e di Paese che non cresce. In casa intanto si parla di destinare a chi il 5 per mille, di cosa fare delle tragiche scatole di Israeli Matzos avanzate che popolano la mia dispensa (io opterei di riportarle in negozio, la mia amica romana di trasformarle in pizzarelle col miele, se no “te vanno 'n giro fino a Purim”, mi allerta). Realizziamo che oggi al cinema esce 'Diaz' di Daniele Vicari e cala il gelo.

Andare a vederlo è un dovere civile, scrive Antonio Scurati su La Stampa di oggi e sono sostanzialmente d'accordo. Impossibile restare comodi, certo, sulle poltroncine rosse davanti a quelle scene da Cile di Pinochet. Viviamo in un Paese senza memoria e anche le scialbe cronache di questi giorni lo testimoniano. Riusciamo a dimenticarci anche delle grandi ingiustizie, insabbiamo scandali, siamo bravissimi a scrollare spalle, a chiudere occhi, a non informarci per andare a fondo nelle questioni, a rassegnarci anche davanti ai torti subiti e ai gravi soprusi di ogni genere che vengono commessi sul suolo patrio. Siamo il Paese del tirare a campare, del “tanto lo fanno tutti”, del “loro, invece noi”. Degli errori però va preso atto, vanno riconosciuti e riparati – se non ci piace dire puniti -. Chi sbaglia va ripreso e aiutato a comprendere l'errore ed educato a non commetterlo più. Altrimenti diventa orrore. Ovvie, facili, scontate, queste mie parole, ma quanto puntualmente disattese. 

A Genova fu dato un ordine scellerato? Fu libero arbitrio? Una vergogna nazionale, senza dubbio, da tramandare ai postumi. “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale”, l'ha definita Amnesty International. Su una cosa non sono affatto d'accordo con Scurati: la ferita non è sanata, è diventata piaga, perché nell'Italia di allora, come in quella di oggi, la tortura non è reato. E finché perdurerà questa mancanza – che fa tanto male quanto l'impunità dei responsabili di quel massacro – non possiamo nella maniera più assoluta dormire sonni tranquilli.

lunedì 2 aprile 2012

Tu prova ad avere un mondo nel cuore

Il bigliettino spiegazzato mi raggiunge al tavolino di un bar mentre prendo un caffè a un'ora improponibile con una mia amica. In passato abbiamo lavorato insieme in carcere, proprio in quello da cui è partito il foglietto per me. "Devi tornare a trovarli, Ci'", mi fa, mentre penso a quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui l'ho fatto e mi sento precipitare dentro.

"Da quando ho scoperto l'arte, questa cella mi è diventata una prigione": la frase, forse la più toccante e illuminante di tutte, è nel film dei fratelli Taviani 'Cesare deve morire', che sono andata a vedere al cinema qualche giorno fa. Da sola, senza amici intorno, senza sorelle, né l'Errante. Gelosa come stessi guardando qualcosa che è intimamente mio, perché incrociare occhi, respirare odori, avere lo sguardo spezzato, conoscere storie di chi in galera ci vive è quanto di più bello mi sia mai capitato. Tra le critiche che sono state mosse alla pellicola vincitrice dell'Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino, c'è quella di non aver denunciato il grave problema del sovraffollamento degli istituiti di pena italiani. Personalmente, non credo sia questa la missione del film. Ai miei occhi non è infatti un film di denuncia, bensì un documentario magistrale che incontra la grandezza del cinema fatto da due maestri. Trovo invece sia vergognoso che della situazione delle carceri si parli poco, troppo poco. Releghiamo alla cronaca i suicidi di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, ignoriamo le problematiche degli uni e degli altri, non ultima la battaglia sindacale per incrementare il numero di questi ultimi e la presa in considerazione di  misure alternative alla detenzione per i primi. Una vergogna che non dovrebbe esistere in un Paese civile e democratico: basti pensare al fatto che (stando agli ultimi dati diffusi dal rapporto di Caritas Ambrosiana), a livello europeo, in termini di sovraffollamento, l'unico Paese a star peggio di noi è la Bulgaria, da cui ci separa uno scarto di appena 3 punti percentuali. Il 31 dicembre 2011 (continua il rapporto) le persone detenute nei 206 istituti di pena italiani erano 66.897, a fronte di una capienza regolamentare complessiva dichiarata di 45.700 posti. Il tasso di affollamento delle carceri italiane è del 146%, ciò vuol dire che per ogni 100 posti disponibili sono detenute in cella 146 persone: per un detenuto su tre non c'è posto. Una situazione insopportabile, che ha portato nel 2009 la Corte europea dei diritti dell'uomo a condannare l'Italia perché la detenzione in queste condizioni rappresenta un trattamento "inumano e degradante". Dati che porterei dritta dritta sulla scrivania di un caporedattore di un noto settimanale femminile italiano, che lo scorso dicembre mi ha dato della "criminale", al telefono, quando gli ho proposto un articolo su un progetto di reinserimento dei detenuti che prevedeva la costituzione di band musicali e compagnie teatrali. "Si rende conto? Ma si vergogni!". E ha messo giù. Avrei tanto voluto chiedergli cosa farebbe se fosse genitore di un figlio che ha sbagliato, ha pagato per l'errore commesso e che cerca con non poca fatica il suo posto nel mondo.

"A Cinzia, che tutti possono vedere quando vogliono e io no", c'è scritto nel mio bigliettino. Un po' poesia, un po' rimprovero, ma quanto mondo dentro.

Il 6 aprile. Ci siamo, rieccolo alle porte. I miei amici mi chiamano, ci stringiamo e ci lasciamo sconquassare dai ricordi che non passano mai, dalle cicatrici dure a rimarginarsi. Nei giorni scorsi per L'Aquila ha gironzolato David Grossman. "Con voi posso condividere il dramma che ha colpito la mia famiglia sei anni fa - ha detto facendo riferimento alla morte in guerra del figlio Uri -. Perché in voi vedo il mio stesso dolore, il mio personale e quello della mia terra, Israele". Ha poi visto le chiavi degli aquilani, ancora appese in segno di protesta a una transenna sul corso: come i palestinesi all'ingresso dei campi profughi. La scena lo ha molto impressionato.

Si avvicina il 6 aprile, ci siamo, rieccolo. Piangersi addosso e sul latte versato mi fa uscire dai gangheri come poche altre cose. Metto qui allora la chiusa del bell'articolo di Aldo Cazzullo, sul Corriere di oggi: "Anche l'Italia, come L'Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare - scrive -. Anche l'Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse - a cominciare dai suoi giovani - per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c'è anche un Paese che tiene, c'è anche un Italia che - proprio come L'Aquila - resiste". Hag Pesach Sameach.