martedì 11 dicembre 2012

Lezioni di poesia

Mi passano accanto, per strada, macchine strombazzanti sormontate da improbabili hanucchiot illuminate a giorno. Passano, strombazzano, fanno allegria e un ragazzo mi grida dal finestrino "Buona festa di Chanukkà!". "Hag Sameach!", gli urlo. Lui allora si sbraccia, mi saluta, la macchina sfreccia, io penso alla sera a Tel Aviv.

Da quando non ci sei il blu non è più blu, il rosso non è più rosso, il sole scoperto dalla tapparella al mattino non mi dà niente, Milano mi sembra inutilmente grande e vuota.

Stasera mi passa uno di quei momenti terribili per cui nessuno può fare niente per tirarmi fuori. Ora mi alzo, metto due cose in borsa per la notte e vado a citofonare all'Hidalgo. Che mi addormenti suonando qualcosa. E se riesco a tenere i pensieri lontano da tutte le cose che mi fanno male, non riesco a tenerli lontano da te.

sabato 1 dicembre 2012

Per amor del cielo

"Non te l'ho detto prima per metterti al riparo da questo dolore che ti sta mandando ai pazzi". Si scusa, la mia amica, senza tregua. Mi ripete insistentemente di perdonarla e che no, non ci ha pensato che l'avrei letto dall'Ansa e che il cuore si sarebbe gonfiato di angoscia e che il respiro mi si sarebbe spezzato. E ora che l'ho ribaltata di parole e grida furiose addosso mi rendo conto che sì, in effetti ci aveva visto giusto.

Devi resistere, ce la devi fare perché non può essere altrimenti. In questo attendere fatto di angoscia ripenso  all'ultima volta in cui ci siamo visti: hai chiesto, a un certo punto, se facevi ancora in tempo ad innamorarti da perdere la testa. Sì, ti abbiamo detto con insistenza: si tratta solo di saper aspettare.

Questa, invece, di attesa è cattiva e stritola ed è da tenerle testa ogni ora che passa, di più. Il tempo si riempie di futilità e allora la testa fa fronte al cuore che ha paura e teme l'inaccettabile. Appena torni io vengo ad abbracciarti e a travolgerti con questa lista di cose da fare insieme, di momenti da condividere che si allunga, nella mia mente, di ora in ora. Un aiuto, come antidoto, come un balsamo. Che quest'attesa non avveleni il cuore e non ci lasci impazzire soli.

lunedì 19 novembre 2012

Jewish & the city

"Perché hai preso i biglietti per quattro quando siamo soli io e te?" - "Per avere uno spazio vitale, Querida. Ora stai buona che devo godermi anche gli odori, di questo film". La mia sorella nell'arte mi viene a prendere fuori dalla redazione e mi porta al cinema. Siamo reduci da giornate difficili, che ci prendono la testa e la bocca dello stomaco: nervi da tenere a bada, persone che non avresti detto mai che mostrano il lato peggiore di loro stesse e più miope; partigianeria fine a se stessa e parole lanciate come pietre senza un minimo di retroterra culturale. Non parlo mai di cose che non so e nelle discussioni lo ammetto serenamente, quando accade: Israele ha risposto ai razzi di Hamas e da giorni mi porto addosso questo malessere che riesco a condividere solo con pochissime persone. Che non parlano a sproposito, conoscono appieno la materia, ne soffrono e ragionano con cognizione di causa - anche a costo di feroci discussioni -, che magari non la vedono come me, non la sentono come me, ma che riescono ad esprimere le proprie opinioni con rispetto e con volontà di capire. E il confronto diventa allora davvero costruttivo e, pur nella ricerca di responsabilità, nessuno sente a prescindere la necessità di dover difendere nessun altro: perché in genere si difendono i colpevoli. E in questo caso ciascuna delle parti sente di aver le proprie ragioni. Per il resto trovo sia assolutamente condivisibile il fondo di Pier Luigi Battista comparso sul Corriere della Sera sabato scorso: "Le bombe sono tutte sporche, come la guerra. (...) La tragedia di Gaza non è senza responsabili".

Il concetto di "spazio vitale" mi riporta alla mente gli ultimi sessant'anni di Storia. L'Errante è partito, non ce la faceva a stare lontano. Per un attimo mi torna in mente la sua mamma, quando d'istinto mi ha aperto il frigo per controllare gli scomparti mentre io non capivo dove volesse andare a parare. I miei amici intanto al telefono e via mail mi raccontano di rifugi e sirene, di riservisti richiamati dal kibbutz, di persone a faccia in terra come riflesso incondizionato. Sull'altro versante, ancora altri scempi. Mi torna in mente il "bubele!" (lett. "tesoruccio!") dei nonni e che domenica il mio moré  mi ha detto di non aver mai sentito, nemmeno tra gli ashkenatzim. Allora sono entrata in libreria, la panacea di stasera si chiama Mordecai Richler, 'Quest'anno a Gerusalemme'(Adelphi):
- "Myer, nelle tue notti insonni, non pensi mai che è un peccato che noi quattro non abbiamo fatto aliyah insieme?"
- "Per poi vivere in un kibbutz? Jerry avrebbe rubato le uova sotto il sedere delle galline e sarebbe andato a venderle per la strada".
- "Non doveva essere per forza un kibbutz. Avremmo potuto fare affari insieme a Tel Aviv".
- "Ci sono stato, grazie tante. Se ci vai, non dimenticarti di portarti dietro i panini. Oppure non mangiare niente se non nei ristoranti arabi".
Ecco, basta investirmi di parole: non ditene altre, che non siano d'amore.

mercoledì 7 novembre 2012

Nuotando nell'aria

Devo alla libreria Luxemburg di Torino profonda gratitudine per avermi fatto scoprire Aharon Appelfeld. Quello è ormai uno dei miei posti dell'anima. "Appelfeld? Il più grande - mi dice il mio amico Angelo - Grossman, Yehoshua... Vedrai, niente a che vedere, un'altra cosa". Da lì a breve scopriamo che avrebbe partecipato a Torino Spiritualità: purtroppo, non ce l'abbiamo fatta ad esserci, per la serata in programma alla Cavallerizza Reale. Così ho iniziato, a mo' di consolazione, il suo "Storia di una vita": uno dei libri più belli mai scritti. Intenso, talmente forte da sentirtelo sulla pelle, da sentirla tua quella testimonianza, uno straordinario esempio di letteratura che si fa bene comune, patrimonio collettivo, esperienza universale, profondamente umana eppure assolutamente intima. Altro dal resto, letto e scritto. Si sente il respiro, è carne viva la scrittura di Appelfeld.

Pagine su pagine, di un progetto che ormai è tela di Penelope, di vita presa dagli eventi, assorbita dai pensieri, dalle decisioni da prendere. Resto qua, comunque. Anche ora che Roma s'è presa l'Errante. Glielo affido come fossero i miei occhi. In fondo, l'Errante fa comunque l'errante, cambia niente, mica. La bella mostra di Guttuso: "I funerali di Togliatti", il "Padre Giotto", "Gott mit Uns". Poi il Ghetto e quell'aria di casa, i pranzi da "Notta Betta". Milano. E non è facile, dovresti credermi, sentirti qui con me. Cos'è che manca?

domenica 16 settembre 2012

Shanà Tovà

Con l'augurio e la speranza che sia un anno davvero buono e pieno di senso. Un anno in cui prevalga la giustizia, la verità, l'accettazione del diritto di ciascuno di vivere liberamente col solo vincolo della libertà altrui. Un anno in cui potersi concentrare di più sulla crescita individuale e collettiva. Un anno di rinnovamento e di continuità, di sviluppo e di approfondimento per tutti noi.

Sarà durissima ma sento che ce la posso fare. A noi due, 5773.
Shanà Tovà Umetukà

venerdì 7 settembre 2012

Nostro anche se ci fa male

In nulla riesce l'Onu, né la Lega Araba. Emergenza umanitaria, dice la Croce Rossa. L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati lancia l'allarme - sono migliaia di migliaia - come altrettanti sono i bambini, dice l'Unicef, fagocitati e travolti dalla guerra che sta insanguinando la Siria. Perché di guerra si tratta: la chiamano crisi, conflitto, violenze, ondata di violenze. Non molto tempo fa, era tra quelle nazioni in cui l'Occidente illuminato riscontrava segnali di primavere, mai arrivate da nessuna parte, mi pare. Tempo fa - quattrordici mesi fa, per l'esattezza - incontrai a un convegno sull'integrazione un ragazzo figlio di genitori siriani. Raccontava di Aleppo, posto da mille e una notte, gli dicevano gli occhi. Non ricordo il nome, non saprei come arrivare a lui adesso, ma quanto vorrei leggerglielo ancora nello sguardo.

Come si fa a dormire sonni sereni in quelle che in altri anni, e davanti ad altre barbarie, Primo Levi chiamava "le vostre tiepide case"? Quei corpi senza più calore, quelli dei morti siriani, pesano sulle nostre coscienze. Su ciascuno di noi, perché nessuno fa niente per fermare lo scempio e si è tutti bravissimi a fingere che non ci riguardi.

Gli Yamim Noraim si avvicinano. Mi guardo dentro, cerco confini, misuro limiti, poi li accantono, pensando ai miei prossimi, a quello che è altro da me. L'Errante è via, stasera. Con la mia sorella nell'arte guardiamo per la trilionesima volta "Tutto su mia madre" di Pedro Almodovar: tra tutti i suoi film, quello finora ineguagliato. Penso all'Hidalgo, che continua invece ad aggirarsi per gli Abruzzi: panorami, primi freddi, ratafià e il museo di John Fante. Tempo d'armistizio, mi dico. In fondo, sono anche casa sua.

martedì 14 agosto 2012

Girotondo

In macchina, in tre, nei dintorni de L'Aquila: Ottocento e poi re Carlo, che tornava anche allora da Poitier. Ti ritrovo dieci anni dopo, in un paese nel cuore della Marsica, nel cortile di un castello di cui ignoravo l'esistenza fino a tre ore prima, raro gioiello che il terremoto - l'altro, il nostro - ha voluto in piedi: come faccio a dirti che di te serbo un ricordo splendido? Sul palco, interpreti brani - con altri, tra gli altri - di Silone e Flaiano e Ovidio e Janni: un reading di letture dedicate all'Abruzzo, che ha selezionato Dacia Maraini. Accanto ho la mia sorella vera e davanti agli occhi anche Piera Degli Esposti, che ha letto un brano di Natalia. La ritrovo la sera dopo, la mia Natalia Ginzburg: un estratto di pochi secondi di una sua intervista saltata fuori da chissà quale teca Rai, mentre vengo accolta in una vecchia cucina di Santo Stefano di Sessanio. Quello stesso pomeriggio la voce di Franco Battiato risuonava da dentro il nero di una vecchia cantina. E ancora Faber, con Boccadirosa, a Castelli, mentre un vecchio artigiano creava sotto i miei occhi un piatto, girando il tornio col piede. In mente avevo Chi si muove con grazia di Nelo Risi.

Estate di grandi ritorni, di compagnie di vita e di viaggio, di pezzi di famiglia e di storia strappati all'oblio e alle erbacce, nelle nostre Spoon River di montagna. Il Gran Sasso, finalmente, e i giganti di verde e pietra che custodiscono pace e persone, posti dove i telefoni non prendono, la mente si svuota, lo sguardo si perde, l'Errante è solo un ragazzo sveglio e ogni cosa si fa leggera: il vento di Campo Imperatore, che porta in alto, come aquiloni.

lunedì 25 giugno 2012

Bye bye, Babele

Si chiama "Esperanto" l'ultimo capitolo di  Tra amici, opera di Amos Oz da poco pubblicata da Feltrinelli, tra le sue che amo di più. Una storia che va a incastonarsi a meraviglia tra le altre che raccontano la vita al kibbutz Hulda. Ci sono i ricordi dentro, suoi che diventano anche miei. Ci sono i miei nonni e mio papà e allora sento l'impellenza di fare aliyah nonostante l'Errante scuota la testa e sorrida: "Come vuoi che te lo dica, in esperanto?", gli avrebbe chiesto tra il serio e il faceto la mia maestra Rita.

Esperanto e bye bye, Babele. Lo dico e la mia amica traduttrice mi guarda allarmata dallo spettro dell'ipotetica disoccupazione, angosciata come l'avessi messa a sedere su un timer a orologeria. Lo dico e penso alla mia sorella nell'arte insultato per strada a Roma mentre Milano ritrova il suo festival Mix, quest'anno alla 26esima edizione, sempre con una rassegna di film emozionanti e di qualità.

Esperanto, tanto per riuscire a rendere ovvio e scontato a chicchessia che i diritti civili sono diritti universali e che come tali spettano a ciascuno e che non c'è giustizia né Stato civile finché siano appannaggio solo di alcuni.

Esperanto, ha la stessa radice di "esperanza".

venerdì 1 giugno 2012

Di certe nostre sere

La chiave gira nella toppa e resto immobile, tanto non me l'aspettavo. Ti porti addosso l'Emilia e la fatica dei suoi racconti e sussulti al passaggio del tram e quando il cane ti si infila sotto la sedia, urtandola. Eccola Milano, che accoglie di suo, figuriamoci quando si torna di Shabbat. Racconti che si intrecciano e parole dette piano. Si muovono e c'incantano le ore, come le onde del mare.

lunedì 21 maggio 2012

Amarcord

Da Visconti a Scola, da Monicelli ad Amelio, da Matarazzo a Garrone. La sezione dedicata ai film che raccontano gli italiani è quella davanti a cui mi soffermo di più. La mostra più bella dell'anno e che vorrei tanto un figlio per potercelo portare si chiama Fare gli italiani, 150 anni di Storia nazionale, ed è alle OGR-Officine Grandi Riparazioni di Torino. Mi appoggio alla balconata del piccolo anfiteatro, le pellicole vanno in loop e piango, piango e piango come fossi da sola. Sarà che sto invecchiando ma no, non trovo siano da nascondere, queste lacrime. Mi capita spesso, ultimamente: come durante Pro Patria di Ascanio Celestini (in scena fino al 27 maggio al Teatro Grassi di Milano), l'altra sera a una mostra, leggendo, ascoltando una voce che esce dal telefono. C'è stato un tempo in cui non lo facevo mai, ora sono grata a chi mi ha fatto riscoprire che l'emozione è tutto nella vita.

Dal resto mi son sentita avvolta -gli spazi-, ho provato malessere profondo -le divise nere dei fascisti e le copertine de 'La difesa della razza'-, emozionata -scovando all'improvviso una ketubà-, rabbiosa di quella rabbia che nasce dal dolore e dall'impotenza -nella sezione dedicata alle vittime delle mafie-. Tra le storie, che ho scelto di farmi raccontare, quelle di Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre, di cui ho la fortuna di occuparmi grazie a un progetto che sto seguendo in questo periodo.

Brindisi, Ferrara, L'Aquila, in tre giorni: l'Errante fa l'Errante e la cosa che più gli invidio stasera è che dorme a casa dai miei. Da sola non ci volevo stare e una bella combriccola sconclusionata si è autoconvocata a casa mia: chi scrive, chi legge, chi si innervosisce perché c'è troppo casino in poco spazio e così non si può lavorare, chi prepara spaghetti, chi mi fischietta Nino Rota. "Simili con simili": pensare quant'ho riso quando me l'ha detto un mio direttore la prima volta. Quanto mi fa bene ripensare ora a quella lezione di vita quando faccio fatica a farmi capire.

martedì 8 maggio 2012

Compagni di viaggio

In una città dove tutto è possibile, un ragazzo e una ragazza, che si incontrano in un bar per single, cercano l'impossibile: il parcheggio in una delle zone centrali e residenziali della città. I due, che vogliono passare la notte insieme a casa di lei, continuano a girare per ore, tra le strane figure di uomini e donne che popolano la Tel Aviv notturna, confrontandosi in lunghe conversazioni che svelano i sentimenti e le paure. Un viaggio, lungo una notte, alla ricerca di un posto per la macchina e per il cuore*.

La missione di questa settimana è sopravvivere a Torino. Maggio ci toglie sonno e riposo e il difficile arriverà  quando l'altro riprenderà il volo verso chissà dove. La storia ci riporta a un anno e mezzo fa, quando abbiamo passato la notte cercando friarielli, dopo una scommessa, per i mercati generali di Milano. "Come ingannare il tempo che resta?", mi è stato chiesto oggi. Non lo inganniamo mica, lo viviamo: ad esempio riempiendoci gli occhi e i discorsi di questi film stupendi in rassegna all'Oberdan, la selezione del Pitigliani Kolno'a Festival. Le radici che tirano, la nostalgia che coccola, la provvisorietà annientata. Basta cercare risposte, abbiamo ancora parole da scegliere.

* Dal programma 'Nuovo cinema israeliano' (Milano, Spazio Oberdan 6-10 maggio) sul film "2 night" di Roi Werner - CDEC, PKF, Fondazione Cineteca Italiana 

domenica 29 aprile 2012

Le mie parole

Il Cinastik non c'è più e neanche la libreria Oberdan. La casa di corso Garibaldi non accoglie più nessuno ma in quella di fronte le persiane sono state aperte, stamattina, come sempre. Le gambe che tremano al primo colpo d'occhio in centro, gli occhi che fanno come vogliono dietro la facoltà di Lettere: strada deserta, porte spalancate sui colli e una melodia argentina che riempie il resto. Quattro anni vissuti intensamente, ricordi in ogni angolo, facce perse di vista e ritrovate, quell'amore tanto forte mai più provato. Poi sette (sette) anni di vuoto, come irreversibile. E, come di colpo, il ritorno dove tutto è cominciato: per riannodare fili, riordinare tasselli, chiudere il cerchio, scoprire che in fondo è un gigantesco puzzle.

Si chiude stasera a Perugia il Festival Internazionale del Giornalismo. Una delle esperienze più entusiasmanti, emozionanti, divertenti di tutta la mia vita. Un'occasione di crescita umana e professionale.
Grazie a tutti, per davvero.

venerdì 13 aprile 2012

La traccia aperta di una ferita

Cambio di stagione o congiuntura astrale, stanchezza o il fatto che a Roma c'era caldissimo e a L'Aquila il solito inverno pieno, a Milano è piovuto come non ci fosse domani mentre a Torino sono stata spazzata da un vento alpino che ciao. Sarà quel che sarà, da una decina di giorni mi porto addosso una mezza influenza, un'infinità d'acciacchi e il divieto assoluto di uscire e stancarmi, almeno per un altro paio di giorni.

Cavalieri erranti, sorelle nell'arte e nella vita, compagnie di viaggio di varie latitudini si avvicendano tra le mie pareti. Giorni di Lega e di esodati, di Borse a picco e di Paese che non cresce. In casa intanto si parla di destinare a chi il 5 per mille, di cosa fare delle tragiche scatole di Israeli Matzos avanzate che popolano la mia dispensa (io opterei di riportarle in negozio, la mia amica romana di trasformarle in pizzarelle col miele, se no “te vanno 'n giro fino a Purim”, mi allerta). Realizziamo che oggi al cinema esce 'Diaz' di Daniele Vicari e cala il gelo.

Andare a vederlo è un dovere civile, scrive Antonio Scurati su La Stampa di oggi e sono sostanzialmente d'accordo. Impossibile restare comodi, certo, sulle poltroncine rosse davanti a quelle scene da Cile di Pinochet. Viviamo in un Paese senza memoria e anche le scialbe cronache di questi giorni lo testimoniano. Riusciamo a dimenticarci anche delle grandi ingiustizie, insabbiamo scandali, siamo bravissimi a scrollare spalle, a chiudere occhi, a non informarci per andare a fondo nelle questioni, a rassegnarci anche davanti ai torti subiti e ai gravi soprusi di ogni genere che vengono commessi sul suolo patrio. Siamo il Paese del tirare a campare, del “tanto lo fanno tutti”, del “loro, invece noi”. Degli errori però va preso atto, vanno riconosciuti e riparati – se non ci piace dire puniti -. Chi sbaglia va ripreso e aiutato a comprendere l'errore ed educato a non commetterlo più. Altrimenti diventa orrore. Ovvie, facili, scontate, queste mie parole, ma quanto puntualmente disattese. 

A Genova fu dato un ordine scellerato? Fu libero arbitrio? Una vergogna nazionale, senza dubbio, da tramandare ai postumi. “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale”, l'ha definita Amnesty International. Su una cosa non sono affatto d'accordo con Scurati: la ferita non è sanata, è diventata piaga, perché nell'Italia di allora, come in quella di oggi, la tortura non è reato. E finché perdurerà questa mancanza – che fa tanto male quanto l'impunità dei responsabili di quel massacro – non possiamo nella maniera più assoluta dormire sonni tranquilli.

lunedì 2 aprile 2012

Tu prova ad avere un mondo nel cuore

Il bigliettino spiegazzato mi raggiunge al tavolino di un bar mentre prendo un caffè a un'ora improponibile con una mia amica. In passato abbiamo lavorato insieme in carcere, proprio in quello da cui è partito il foglietto per me. "Devi tornare a trovarli, Ci'", mi fa, mentre penso a quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui l'ho fatto e mi sento precipitare dentro.

"Da quando ho scoperto l'arte, questa cella mi è diventata una prigione": la frase, forse la più toccante e illuminante di tutte, è nel film dei fratelli Taviani 'Cesare deve morire', che sono andata a vedere al cinema qualche giorno fa. Da sola, senza amici intorno, senza sorelle, né l'Errante. Gelosa come stessi guardando qualcosa che è intimamente mio, perché incrociare occhi, respirare odori, avere lo sguardo spezzato, conoscere storie di chi in galera ci vive è quanto di più bello mi sia mai capitato. Tra le critiche che sono state mosse alla pellicola vincitrice dell'Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino, c'è quella di non aver denunciato il grave problema del sovraffollamento degli istituiti di pena italiani. Personalmente, non credo sia questa la missione del film. Ai miei occhi non è infatti un film di denuncia, bensì un documentario magistrale che incontra la grandezza del cinema fatto da due maestri. Trovo invece sia vergognoso che della situazione delle carceri si parli poco, troppo poco. Releghiamo alla cronaca i suicidi di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, ignoriamo le problematiche degli uni e degli altri, non ultima la battaglia sindacale per incrementare il numero di questi ultimi e la presa in considerazione di  misure alternative alla detenzione per i primi. Una vergogna che non dovrebbe esistere in un Paese civile e democratico: basti pensare al fatto che (stando agli ultimi dati diffusi dal rapporto di Caritas Ambrosiana), a livello europeo, in termini di sovraffollamento, l'unico Paese a star peggio di noi è la Bulgaria, da cui ci separa uno scarto di appena 3 punti percentuali. Il 31 dicembre 2011 (continua il rapporto) le persone detenute nei 206 istituti di pena italiani erano 66.897, a fronte di una capienza regolamentare complessiva dichiarata di 45.700 posti. Il tasso di affollamento delle carceri italiane è del 146%, ciò vuol dire che per ogni 100 posti disponibili sono detenute in cella 146 persone: per un detenuto su tre non c'è posto. Una situazione insopportabile, che ha portato nel 2009 la Corte europea dei diritti dell'uomo a condannare l'Italia perché la detenzione in queste condizioni rappresenta un trattamento "inumano e degradante". Dati che porterei dritta dritta sulla scrivania di un caporedattore di un noto settimanale femminile italiano, che lo scorso dicembre mi ha dato della "criminale", al telefono, quando gli ho proposto un articolo su un progetto di reinserimento dei detenuti che prevedeva la costituzione di band musicali e compagnie teatrali. "Si rende conto? Ma si vergogni!". E ha messo giù. Avrei tanto voluto chiedergli cosa farebbe se fosse genitore di un figlio che ha sbagliato, ha pagato per l'errore commesso e che cerca con non poca fatica il suo posto nel mondo.

"A Cinzia, che tutti possono vedere quando vogliono e io no", c'è scritto nel mio bigliettino. Un po' poesia, un po' rimprovero, ma quanto mondo dentro.

Il 6 aprile. Ci siamo, rieccolo alle porte. I miei amici mi chiamano, ci stringiamo e ci lasciamo sconquassare dai ricordi che non passano mai, dalle cicatrici dure a rimarginarsi. Nei giorni scorsi per L'Aquila ha gironzolato David Grossman. "Con voi posso condividere il dramma che ha colpito la mia famiglia sei anni fa - ha detto facendo riferimento alla morte in guerra del figlio Uri -. Perché in voi vedo il mio stesso dolore, il mio personale e quello della mia terra, Israele". Ha poi visto le chiavi degli aquilani, ancora appese in segno di protesta a una transenna sul corso: come i palestinesi all'ingresso dei campi profughi. La scena lo ha molto impressionato.

Si avvicina il 6 aprile, ci siamo, rieccolo. Piangersi addosso e sul latte versato mi fa uscire dai gangheri come poche altre cose. Metto qui allora la chiusa del bell'articolo di Aldo Cazzullo, sul Corriere di oggi: "Anche l'Italia, come L'Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare - scrive -. Anche l'Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse - a cominciare dai suoi giovani - per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c'è anche un Paese che tiene, c'è anche un Italia che - proprio come L'Aquila - resiste". Hag Pesach Sameach.

martedì 20 marzo 2012

E un bambino li guiderà

Come si spiega l'odio a un bambino? Come spiegargli quanto accaduto a Tolosa? Passo davanti alla scuola di via Arzaga, qui a Milano, presidiata giorno e notte dai militari. Respiro nell'aria quello che mai avrei voluto respirare. Solo quattro giorni fa la notizia dell'arresto a Brescia del 20enne di origini marocchine accusato di terrorismo: per gli inquirenti stava pianificando un attentato al Tempio di via della Guastalla, lo stesso in cui giovedì la Comunità accoglierà quanti vorranno unirsi alla tefillà, alla preghiera, per le vittime francesi.

Su La Repubblica di oggi lo scrittore francese Marek Halter pone l'attenzione sulle campagne xenofobe di certa politica. "Un no collettivo all'antisemitismo, il primo dovere dell'Europa", la sintesi della riflessione di Bernard Henry-Lévy riportata sul Corriere. "Domattina a scuola arriveranno bambini che saranno a conoscenza di quanto accaduto e altri no. Li ascolteremo, ascolteremo le loro domande, le loro paure, li lasceremo parlare e poi risponderemo": mi hanno molto toccato ieri sera le parole della preside della Scuola ebraica di Torino, Sonia Brunetti Luzzati, ospite dell'Infedele del caro Gad Lerner. Amare e dolorosissime le parole della mia Elena Loewenthal, che leggo su La Stampa: in Europa "l'antico demone dell'antisemitismo è ancora vivo, aleggia, sta sotterraneo, magari appena sotto la la superficie della civiltà civile e benpensante. E' un demone antico e tenace, l'antisemitismo (...) Questo pregiudizio, quando viene fuori, non parla, ma distrugge".

Quel "non parla ma distrugge" mi resta dentro e scava, scava. E' così ma non possiamo non credere che l'odio è una malattia e come tutte le malattie si affrontano curandole. Curandole, prendendosene cura. E l'odio lo si annienta non con le armi ma con la parola - davar - il dialogo, la cultura, l'amore, come dice con forza il Rebbe di Venezia. Ci stringeremo ancora di più e andremo avanti con in alto i cuori e passerà questa paura, riaffermeremo con forza la vittoria del multiculturalismo e dei valori della libertà e della democrazia. Ora però è il tempo del dolore, in Francia la Bestia - per dirla con David Grossman - si è accanita ed ha ucciso bambini, e con loro, oggi, la nostra speranza di un futuro migliore. Da domani potremo ricominciare a pensare alle parole di Isaia e pregheremo affinché potremo godere del tempo in cui "il lupo abiterà con l'agnello e il leopardo giacerà col capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno insieme e un bambino li guiderà". (Isaia,11, 6-9)

Il tuo dolore è il mio dolore

lunedì 12 marzo 2012

Io ballo con Bach

Il punto non è essere a favore o contro ma sapersi dotare di quell'obiettività che consente di poter guardare in faccia la realtà senza ipocrisie né schermi ideologici. Della Tav (o non Tav) mi sono fatta quest'idea. E sul piatto della bilancia vanno messi non solo costi e benefici dal mero punto di vista economico ma vanno soppesati anche  risvolti e implicazioni socio-sanitarie. Non solo, infatti, la costruzione della linea ad alta velocità che consentirebbe di collegare Torino a Lione in un'ora e 40 minuti comporta costi d'opera elevatissimi, gonfiati nel nostro Paese anche per via della corruzione e di mire e appetiti delle organizzazioni mafiose. Comporta anche un mastodontico costo sociale e la questione della salvaguardia ambientale. Andrebbe infatti scavato un tunnel all'interno di una montagna contenente amianto e uranio e fanno paura anche polveri e inquinamento prodotti dai mezzi nei cantieri. La ferrovia, poi, devasterebbe il territorio e distruggerebbe le falde. Siamo allora sicuri di essere davanti alla miglior soluzione possibile? Lo scrivo mentre in questi giorni il governo ribadisce la linea dell'avanti tutta e sembra non prendere in considerazione l'ipotesi di rinvii o abiure.

Giorni d'avanti tutta, un po' come i miei. "Altro che papaja, Querida - fa piombandomi in casa la mia sorella nell'arte -: ta-daan, fiori di Bach: ti ho portato Olive, così non ti stanchi, non ti sciupi e non t'addormenti più sul tram" (in effetti l'altra sera sono venuti a recuperarmi  dall'altra parte della città). E all'Errante: "Tieni, per te invece ho preso Heather". "Uh - gli fa il verso quell'altro -, in effetti mi manca Fantastico". "No - ribatte secco e garrulo la mia sorella indomita - quattro gocce fanno miracoli contro l'egocentrismo". Eh sì, è amore. Fiori o non fiori, realizzo che c'è una sola cosa da fare: mi tiro dietro la porta e "dò sfogo alla mia turpe voglia", come canta Guccini: lo ascolto, Bach.

giovedì 1 marzo 2012

Disperata, erotica e stomp

Non sopporto quando mi chiedono "Come stai?" quando si vede lontano un miglio che sto male, né "Va meglio, oggi?" quando è palese che sì, passata è la tempesta. Odio la retorica, i piagnistei, le frasi fatte e chi si lamenta a prescindere, che finisce dritto nella black list di quelli che tengo a debita distanza. E l'embargo a volte può durare giorni, altre mesi, poche per sempre. Preambolo per dire che la morte di Lucio Dalla mi tocca, e pure di molto. Perché di ricordi si campa tutti, soprattutto quando si fanno "patrimonio nazionale".

Nel mio strapiccolo claustrofobico, ricordo quando telefonavo la domenica mattina in radio a mio zio, per chiedergli di passare "Attenti al lupo" o quando scoppiai in lacrime in macchina davanti a un mio ex cantando - e irrimediabilmente storpiando - "Tu non mi basti mai". Qualche giorno fa, poi, canticchiavamo in casa "Canzone", con Robbo, perché c'è Napoli dentro ed è rasserenante: io con lo strofinaccio intrecciato sulla testa, lui coi mestoli in mano.

E poi ritorna quel giorno di quasi sette anni fa, quando lo incontrai, Lucione, per caso, in una libreria a Milano. Sola io, solo lui. Si aggirava, come me, tra gli scaffali. Allora mi avvicinai e lo colpì "Sostiene Pereira" di Tabucchi, che avevo in mano. Pochi istanti dopo andò a rifugiarsi nella tabaccheria di fronte, perché gli mancava il sigaro. Io ero scesa da un paio d'ore dal treno, il giorno dopo avrei avuto i test per la scuola di giornalismo. Insomma, "tutti e due a far qualcosa di importante, di unico e di grande".

lunedì 27 febbraio 2012

Carte da decifrare

"Non succederà più, che torni alle tre e io mi addormento senza te", canta la Mori. Insomma rifletto, mi faccio venire le idee, passo in rassegna libri, autori, poesie, bozze, testi, canzoni, in cerca di intuizioni e bellezza da condividere. Passa la stanchezza, passano il sonno e le ore. Finché mi piomba addosso l'Errante da chissà dove, si esalta, le riprende, le declama urbi et orbi e ciao, stuoli di fan adoranti cascano svenuti. Lo chiamano "ghostwriting". Io, a volte, penso sia una gran fregatura.

mercoledì 15 febbraio 2012

Le affinità elettive

Alle affinità elettive, io, ci credo da sempre. È il metro con cui scelgo amicizie e compagni di viaggio. Stasera Milano mi ha portato in dono la mia amica Roberta Anau, autrice del bel libro “Anatre, oche e rabbini” (edizioni e/o), di cui ho scritto tra questi liberi pensieri semplici qualche mese fa. Finalmente, dopo mesi e presentazioni sparse qua e là, l'agognato momento di scambiarsi sorrisi e abbracci è arrivato. Serata subito in vetta alla mia hit parade dei momenti migliori: tutto un trovarsi e ritrovarsi continuo, una sensazione di condivisione e infinita naturalezza, affinità intellettuali, coincidenze di ogni tipo da tonfi al cuore. E poi foto di famiglia che raccontano di persone e radici, pagine da risfogliare insieme, le mie tanto agognate ricette, di quelle che sono dedicate “alle nostre madri, alle madri delle nostre madri, alle madri delle madri delle nostre madri...”.

“Le radici profonde non gelano”, mi scrisse anni fa, a Perugia, una persona a cui ho voluto bene davvero, e a cui ne voglio tutt'ora. Incredibile e meraviglioso come ci si incontri, ci si scopra, si condivida pezzi di vita e di vissuto. Felice, penso a domani, quando racconterò di aver conosciuto anche un pezzo di famiglia dell'adorato Lele Luzzati e di averne scorto il viso del padre a un matrimonio degli anni Quaranta. Vado a letto con una gran voglia di buricchi e charoset, di cuscussù e latkes. E di riveder presto tutti coloro che mi hanno regalato emozioni tanto forti, stasera. “Gli ultimi saranno i primi”, leggo tra le righe delle mie dediche: sorrido, penso alla faccia dell'Errante quando glielo racconterò e che sì, domani farò una telefonata al mio amico che crea ceramiche, in Abruzzo: chissà che non ci dipinga dei piatti in tempo per Pesach.

martedì 14 febbraio 2012

Bianca

Di lavoro non si deve morire. Lacrime e applausi, ieri, in tribunale a Torino alla lettura della sentenza di condanna a sedici anni di carcere per i vertici della Eternit, la multinazionale svizzera dell'amianto. "Non deve succedere, - sento rispondermi, tra le chiacchiere da bar -. Si rischia che poi nel nostro Paese non viene più a investire nessuno". E no, caro amico, nel migliore dei mondi possibile non dovrebbe accadere: non dovrebbero finire in carcere proprietari delle ditte e datori di lavoro, perché nel migliore dei mondi possibili non si lasciano i tuoi simili a lavorare dove viene messa a repentaglio la sicurezza, la salute, l'integrità psichica e mentale. Non si calpesta la dignità e i diritti, in primis quello alla salute, dei lavoratori, nel migliore dei mondi possibili. Non si lasciano i figli senza i padri, né le vedove o le madri mutilate, a causa del lavoro, nel migliore dei mondi possibili. Quello che è avvenuto ieri a Torino è solo il primo tassello, verso un mondo del lavoro più equo e giusto. Ma moltissimo resta da fare, in questo nostro Paese. Basti guardare a come cresce, giono dopo giorno, il numero di quelle che quasi beffardamente vengono chiamate "morti bianche" (perché 'bianche', che vuol dire? Cos'è che conferisce candore?). Quanti lanci d'agenzia mi scorrono sotto gli occhi ogni giorno, quanti altri morti restano senza nome e senza cronaca.

Il tema del lavoro ci distoglie gli occhi e il cuore da quella che ormai ci siamo abituati a chiamare "emergenza freddo". Ed emergenza, a casa mia in Abruzzo, lo è davvero. I miei non hanno mai visto niente di simile: auto letteralmente sparite sotto il manto della neve, strade inagibili, interi paesi isolati. Cumuli alti, in media, un metro e mezzo. Anche la luce è bianca e abbaglia, tutto si ferma: "All'inizio incanta e resti senza parole, Ci': poi passano i giorni e scopri di esserne prigioniero". Così mio babbo, vero uomo di passi e altura, dopo la prima settimana. Un febbraio antico, che riporta solidarietà tra vicini, quella dei più giovani verso gli anziani e le famiglie. La magia di veder scendere lupi e cervi fino in paese, in cerca di cibo, tra il silenzio e l'odore della legna che brucia nei camini.

A Milano fa solo tanto freddo: chiusi in casa, telefoniamo giù e guardiamo le foto che amici e non pubblicano su Facebook. E allora li sento tutti più vicini: i ragazzi de L'Aquila che sciano e fanno snowboard sul corso e davanti la chiesa di San Bernardino (che il centro della città non muoia, anche se isolato da tutto), un'anziana di Collelongo che porta via da sola la neve che le ostruisce la via di casa, servendosi di una carriola, il reportage di Paolo Rumiz, bellissimo, rimasto bloccato alla locanda della Bianca, a Balsorano. Tutto rallenta anche a Milano: l'Ebreo errante che col freddo resta di più a casa, gli amici che passano i pomeriggi a provare ricette e raccontarci storie. Neanche fossimo finiti nel Decameron. Senza vasi di basilico, però.

domenica 29 gennaio 2012

Mitzvòt

Di Thomas Geve ho sentito parlare per la prima volta un anno fa. Aveva tredici anni quando è stato deportato ad Auschwitz. Dopo venne Gross-Rosen e Buchenwald dove, finalmente, nel 1945 l'esercito alleato abbatté i cancelli. Thomas scampò alla selezione perché dimostrava più della sua età: venne allora assegnato ai lavori forzati. Dopo la liberazione, non potè lasciare subito il campo, perché troppo debilitato: chiese allora delle matite e cominciò a disegnare sul retro dei formulari delle SS quello che aveva visto, vissuto e subìto. Da allora non l'ha più fatto e se quei disegni sono arrivati fino a noi lo dobbiamo alla sensibilità di suo padre, che li conservò fino al 1985, anno in cui li ha donati allo Yad Vashem di Gerusalemme.

Geve è oggi a Torino, l'occasione è la mostra “Qui non ci sono bambini”, che trae il nome proprio dal suo libro, pubblicato un anno fa da Einaudi. Cinquanta dei suoi 79 disegni sono esposti, per la prima volta in Italia, al Museo della Resistenza e c'è tempo per vederli fino al 13 maggio. Sono felice sia Torino a dare spazio alla sua testimonianza. La città di Primo Levi, di Norberto Bobbio, di Cesare Pavese. Mi piace sentirla anche un po' mia, ormai. A Torino ci coglie la notizia della scomparsa di Scalfaro. Robbo, manco a dirlo, tempo di avere conferma ed è già con la testa a Porta Nuova. “Pensaci tu qui, torno domani”. “Eh?”. “Su, una mitzvà”.

Mi attacco al telefono e mando allora un sms al mio amico Massimo, che ha intervistato Oscar Luigi Scalfaro a marzo scorso. Ricordo la sua emozione prima della partenza e al ritorno e quel nostro brindisi all'intervista e alle esperienze indimenticabili che questo mestiere ci riserva. Riporto allora qui un passo di quell'incontro, raccolto nel libro “La Costituente: storia di Teresa Mattei” (pag.9, Altreconomia): "Prima di tutto: non state alla finestra a guardare. E' troppo comodo. E' grande la tentazione da parte dei giovani di dire che la politica è sporca e che è un mondo di profittatori. Se questo fosse vero si moltiplicherebbero le ragioni per entrarvi a portare un clima diverso per attuare la giustizia per chi è più lontano. E' dannoso stare con le mani in mano. Allora dico: non state a guardare e non arrendetevi mai! Lo ripeto ai giovani: non arrendetevi mai!"
Oscar Luigi Scalfaro

giovedì 26 gennaio 2012

Come mi batte forte il tuo cuore

"Ci chiediamo cosa succederà alla memoria della Shoah
quando scomparirà anche l'ultimo sopravvissuto:
i suoi figli saranno qui per continuare a testimoniare."

Elie Wiesel

martedì 17 gennaio 2012

Zona Cesarini

“Fitostimoline”. Me lo scrive sul retro dello scontrino il signore al banco della gastronomia. “Fa miracoli, sa? Non si trascuri”. Ha notato il mio braccio alla Freddie Krueger e, discretissimo, mi rifila la dritta insieme al pacchettino con il pranzo. Bello quando qualcuno si prende cura di te: una voce amica che mi fa ridere al telefono, chi si presenta a sorpresa in casa con vassoi traboccanti di dolci siciliani per “rimettermi al mondo” e un pezzo di challà post-Shabbat, chi si attacca al citofono e canta “E ti vengo a cercare”, i colleghi che mi riaccolgono al lavoro. Si avvicina il Giorno della memoria ed io quest'anno ci arrivo senza più nonni. Devo decidere da sola a quali convegni partecipare e quest'anno oltre a Milano e Roma guardo anche a Torino e Ferrara: la famiglia si allarga. Di questo si vive. E di tanto altro ancora.

Per il resto, ha ragione la mia sorella nell'arte: ci affanniamo per avere l'eclatanza ma a conquistarci sono sempre le piccole cose. Me lo dice al telefono mentre lo raggiungo al bar: è seduto che sgalletta con la stessa persona che oggi ho cercato invano al telefono per un'intervista. Li guardo come fossi finita in una commedia di De Filippo. Milano è pazzesca, come perdersi ai giardinetti. “Ho rotto le scatole in tutte le redazioni in cui ho lavorato per avere il suo numero e me lo trovo con te?!”. “Ti ho spacciata come esperta di Kieslowski. Regolati”. Le forze m'abbandonano. Ce lo diciamo via sms: al nostro saremmo sembrati due maleducati disturbati, in effetti. Recupero forse solo quando tiro fuori la brillante teoria dei sette cretini che si incontrano, in media, per strada prima di imbattersi in una persona intelligente: è di Carlo Fruttero e l'ho scoperta stamattina, mentre sfogliavo i giornali. Pfui, salva in zona Cesarini. Non gli ho chiesto, però, quanto tempo è passato dal momento in cui è uscito di casa.

giovedì 5 gennaio 2012

Vedi alla voce: Amore

Amo Milano alla follia, come Woody Allen nell'intro di Manhattan. Amo Milano e guai a chi me la tocca e le critiche sterili e i luoghi comuni su questa città - che a un certo punto della mia vita ha praticamente deciso di adottarmi - mi infastidiscono parecchio.

Amo Milano e finché me ne sto qui ho certezze assolute e niente può farmi male. Lo scrivo per ripeterlo a me stessa, ora che sono reduce da una tre giorni in cui – essendomi dovuta allontanare - ho dovuto cercare tutto il tempo di preservarmi dall'odio, come non ricordavo di averlo mai dovuto fare e a cui non ero preparata. “Ne vieni a parlare a me, delle conseguenze dell'odio, a' Ci'. Qua, per giunta”: lo scossone me lo dà il mio amico mentre passeggiamo per il ghetto. Ho deciso di fermarmi a Roma prima di proseguire per Milano: avevo bisogno di ritrovarmi, di tirare il fiato e di non impormi niente. Questa città è sempre un utero, mi inghiotte intera e poi mi rigenera, anche se ultimamente mi fa paura per il clima di intolleranza che alleva e, a tratti, coccola e protegge. Mi concentro allora sulla mia, di Roma: quella della crostata di Boccione, sempre in borsa fino al Pincio, delle librerie dell'usato, delle anticaglie e delle campane che rintoccano a ogni mezza, di Gabriella Ferri e dei gabbiani “che calano sulla Magliana”, dei turchi “arrivati all'Argentina” e dei negozi di antiquariato che non sono in via del Corso, degli autobus che non so mai dove mi portano, delle passeggiate finché reggono le gambe, delle case, che mi incanto a guardare immaginando di viverle.

Torno a Milano e torno a casa. E il resto sì, che sarà mai: che scatti pure quest'area C e il nuovo Ecopass, sopravviveremo alle orde sui mezzi pubblici, allo smog che non demorde (del resto, come potrebbe, così?) e alla crisi che morde, ai nostri lavori precari. Una sorta di inno alla vita, il mio, tanto alle brutture ci pensa l'oblio. Appuntamento con un altro amico, stavolta davanti al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, così da non dover dire niente. Che le parole, in fondo, cosa sono? E' la bellezza che, c'è da scommetterci, salverà il mondo.

domenica 1 gennaio 2012

Fortuna omnia vincit

Mi accorgo che l'anno è finito dall'agenda: per segnare i turni della radio ho dovuto inaugurare quella nuova. E' la stessa da otto anni a questa parte ma la cosa mi dà un piccolo moto d'animo ogni volta che la libero dal cellophane. Sveglia da poco, telefona la mia amica: ha appena finito di scrivere sul suo quadernetto la lista delle cose buone del 2011 e gli obiettivi per questo 2012. “Obiettivi – precisa -, non propositi, 'ché quelli per definizione già sappiamo che disattenderemo”. Nutro un'ammirazione smisurata per il suo zelo.

Sarà per quello che io, di buoni propositi, non ne ho manco mezzo. Mi ci ha fatto pensare ieri sera un altro amico, che a cena ce ne ha elencati una sfilza, al punto che ho dovuto mettere anche le mie dita a disposizione per portare il conto e quelle degli altri. Mi impongo di trovare un proposito buono e dopo minuti di arrovellamenti riesco a partorirlo: imparare finalmente le regole del rugby e quelle del basket, così la smetto di scopiazzare i colleghi della Gazzetta e di fingere competenza in materia. I miei amici ridono, io intanto penso che però potrei fare di meglio: questa cosa di non avere buoni propositi per l'anno nuovo mi atterrisce.

Mia sorella nell'arte invece sostiene che sarà un anno bellissimo e ricco di sorprese, per me e anche per lei, proprio perché non abbiamo aspettative. Tsé, sarà. Mi dà però tepore e mi rassicura l'idea del quadernetto della mia amica al telefono. E allora comincio a ripercorrere, agenda alla mano, situazioni, visi, emozioni, amori, lavori, posti in cui sono stata, canzoni, da gennaio di un anno fa ad oggi e scopro un mondo. E allora sì, che me ne rendo conto: la mia si chiama fortuna. E, molte volte, è pure sfacciata.