martedì 29 novembre 2011

Così è, se vi pare

Come un sogno che finisce. La morte di Lucio Magri mi ha colpito molto e mi lascia una grande amarezza nel cuore. Nutro rispetto, profondissimo, e mi sforzo, tanto, di capire. E stimo, anche, la fermezza, il coraggio, la dignità della scelta di questo e di altri Icaro. Quel mantenersi inflessibili, fedeli alle proprie idee, alla propria natura, senza cedere al compromesso, in primis verso sé stessi, fino alla fine. E alla fine, l'ultima resa: il volersene andare dopo che la vita ti porta via anche l'amore.

Stasera sono tornata a teatro per vedere “Cabaret Yiddish” del mio nuovo amico Moni Ovadia. Amo profondamente la vita anche – e soprattutto – per questo: per gli incontri inattesi, per le empatie che accadono, per i legami affettivi e intellettuali che si creano e si fanno forti. Chiedevo tempo fa a una mia cara amica perché ha scelto di condivere pezzi di vita con me, mi sono ritrovata a chiederlo anche al mio compagno di viaggio, me lo chiedo quando voglio bene o mi sento legata – anche inspiegabilmente, a volte – a persone che magari conosco poco ma verso cui provo sentimenti profondissimi. “Sono cose che non si chiedono – mi ha risposto lei -, si sentono e basta”. E quando si sentono, aggiungo io, è bene così.

lunedì 28 novembre 2011

Cos'è la vita

Insomma scorrazzo da una parte all'altra della città immersa nelle mia miriade di cose da fare, tra cui questo progetto che coinvolge le detenute del carcere di San Vittore che ormai non è più lavoro: è dedizione, passione, quasi voto. Le radici ben piantate da una parte, il resto mosso dal vento, come mi diceva oggi Moni Ovadia. Alzi la mano chi non è figlio di una diaspora: quello che era prima di te, finisce a far parte di te. E non si sfugge.

Quello che resta fuori invece lo perdo, lo confondo o lo dimentico: i codici di accesso alle agenzie (sì, quelli che uso ogni santo giorno per lavorare), i pin dei telefoni, la combinazione del bancomat, la lista della spesa, i guanti, una ricetta, il biglietto del treno, lo scontrino di un maglione dalla taglia sbagliata. “La solita sbadata, sei...Allora buona serata, eh, e salutami quell'Alberto”. Roberto, mamma, Roberto.

domenica 20 novembre 2011

Povera Patria

Di Perugia mi manca il jazz. Aspettavo per mesi quelle atmosfere, poi finalmente arrivavano, in ogni angolo di strada, fin sotto il mio portone. E ci restavano per giorni, si lasciavano respirare, travolgevano il resto. Non conoscevo Avishai Cohen ma sentirlo – e vederlo – suonare, oggi a Milano, è stato un incanto totale. Fuoriclasse anche i suoi due musicisti: Omri Mor, al piano, e Amir Bresler, alla batteria. A sommare le loro età, non s'arriva a sessant'anni.

Come ogni persona dotata di media intelligenza e buon senso, in questi giorni ho accolto con favore, sollievo e speranza il cambio di governo e la costituzione di un esecutivo tecnico, in Italia: niente politici, solo un team di esperti a cui da qui ai prossimi mesi toccherà rimboccarsi le maniche e – finalmente – lavorare seriamente, con competenza e rigore. “Hai spaccato un Paese – ha scritto Massimo Gramellini su La Stampa rivolgendosi idealmente all'ex premier Silvio Berlusconi -, abbassato l'asticella del buongusto al livello dell'elastico degli slip, desertificato i cervelli di due generazioni di telespettatori, abolito il senso di autorità e quello dello Stato (…), sdoganato un esercito di fascisti, razzisti, squinzie e buzzurri. Soprattutto hai sparato una quantità inverosimile di panzane”.

Stamattina, davanti ai tanto giovani quanto bravissimi musicisti di Cohen, ho provato amarezza. Ho pensato che quanto accaduto negli ultimi vent'anni in Italia è qualcosa di criminoso: l'ascesa e l'affermazione prepotente del populismo ha soverchiato il talento, violentato il rispetto, l'importanza, il bisogno di cultura, ha annientato la meritocrazia (ammesso abbia mai avuto vita facile, anche prima). "Povera Patria", cantava Franco Battiato. Povera, sì.

giovedì 10 novembre 2011

Colloquium vitae

Mai come in questo periodo di assoluta difficoltà e sfiducia per il disfacimento progressivo politico, finanziario, paesaggistico del nostro Paese, sento il bisogno di circondarmi di persone che mi facciano perdere, che mi travolgano, che mi regalino spunti, lampi di intelligenza, dibattiti, confronti, occasioni di crescita e arricchimento emotivo e mentale, che mi tengano con loro, che mi preservino. Tutto insieme, o niente.

Ho inaugurato allora da qualche giorno questa sorta di simposio tra simili. Che ti ritrovi in casa, a ogni ora, che ti svegliano allarmate in piena notte convinte che è già tempo di partorire, che mi portano via agende e telefoni quando perdo le staffe, per ridurre al minimo il rischio di sfuriate delle quali potrei pentirmi appena passata la buriana.

Passerà questo tempo indeciso, si alzerà questa nebbia fitta, questa scarsa capacità di scrutare l'orizzonte, di non poter sapere cosa si cela dietro il sipario. “Tra un bicchiere di neve e un caffè come si deve”, ha cantato Fossati, facendomi struggere. E allora via a tutto quello che mi fa da zavorra, che mi si appende addosso come peso morto, cappa opprimente, legacci troppo stretti. L'ultima volta che mi hanno fatto scoppiare a ridere, oggi pomeriggio. L'ultima esperienza indimenticabile, quella di sabato scorso. L'ultima emozione forte, ieri sera. L'ultimo bacio dato, poco fa. Similia cum similibus. Noi che non abbiamo tempo da perdere, ma tempo da dare.