martedì 31 luglio 2007

Il coraggio di vivere

Incontro con Mario Melazzini

"Io in questo momento mi sento un uomo libero. Mi sento libero perché ho dei legami. Mi sento libero nei confronti della vita, che amo profondamente e che è degna di essere vissuta in tutte le sue fasi, malattia compresa. Mi sento libero e per me libertà significa accettare i propri limiti e mi sento libero perché per me significa essere me stesso”

Guarda il video dell'intervista

"La mia architettura? Non implica costruire"


Intervista a Italo ROTA


“I musei vivono anche senza i visitatori, hanno una vita loro come gli oggetti”

Il museo è entrato in crisi e tra le cause ci sono anche i grandi magazzini, dove “uno entra da una porticina anonima e dentro ha milioni di merci”.
Secondo l’architetto Italo Rota, a cui nei giorni scorsi è stata affidata la realizzazione del Museo del Design di Milano, la ragione sta nel fatto che “comprando tante merci, arrivando a casa e mettendole su un tavolo, ognuno inizia un’attività riflessiva e compositiva con oggetti molto eterogenei. Ogni volta che uno rovescia le borse della spesa o dello shopping crea un piccolo museo del mondo sul tavolo e questo dà un potere straordinario a ogni individuo, nel senso che le attività creative sono oggi in grande espansione proprio perché la giornata spinge le persone a d essere immaginative”.
Allora oggi ha ancora senso fare un museo e parlare di “originale”?
“Intanto bisognerebbe capire cosa si intende per museo. Seconda cosa: i musei sono tutti diversi. Primo per quello che contengono, poi perché ognuno all’interno della sua categoria ha la sua storia. Penso che il museo che soffre è, oggi, quello dell’arte, perché le riproduzioni sono di una tale qualità che il problema è che si vedono molte più cose nella riproduzione che non guardando un quadro originale, a parte l’emozione, il feticismo, eccetera. Comunque il museo è sempre stato una cosa elitaria. Quando diventano musei di massa è perché accadono fatti esterni al museo stesso”.
A questo punto Rota - che entro quest’estate ultimerà la costruzione del padiglione centrale dell’Expo universale di Saragozza sull’emergenza ambientale e tra tre anni il museo del Novecento a Milano - cita come esempi la piramide del Louvre, “che ha attirato milioni di visitatori all’epoca della riapertura” o la gente che è tornata a visitare il museo parigino “dopo l’effetto Dan Brown. O – aggiunge - il cosiddetto effetto-Gugghenheim: non è certo il contenuto, non esiste Bilbao, è l’edificio che attira i visitatori. Quindi, i musei vivono anche senza i visitatori, hanno una vita loro come gli oggetti. Le persone che si pongono questi problemi pensano che tutto il mondo sia uguale, che tutte le persone siano uguali e che tutte possano permettersi tutto. E questo non è vero”.
Lei ha vissuto e lavorato molti anni in Francia. Che differenze ci sono tra i musei italiani e quelli all’estero?
“Differenze non è che ci siano, a parte la quantità di musei che ci sono da noi. In Italia non esistono grandi musei generalisti, come il Louvre o l’Ermitage, non c’e’ un museo che contenga un po’ di tutto: una persona deve visitare più musei per farsi un’idea dell’arte, della scultura, della storia”.
Cosa si intende oggi per arte contemporanea?
“L’arte non ha spiegazioni, non ha categorie. Costa, e non solo in termini di denaro, ma anche di sforzo intellettuale, di pensiero, di politica. Le categorie non esistono più”.
E l’artista cosa cerca di suscitare nel visitatore?
“Certi lo chiamano dramma interiore, altri orgasmo... Penso che non si pensi a niente e che non si debbano spiegazioni. Nell’architettura l’atto immaginativo è il 2%, l’architetto non può costruire da solo come fa un pittore con il quadro; per il 98% bisogna che qualcuno adotti un progetto e investa energie, potere, convincimento e comunicazione per poterlo realizzare”.
Lei è autore di libri piuttosto particolari, come “Ma gli architetti dormono tutti?” e “Manuale di architettura incorretto e da accrescere”. Ha anche affermato: “Per i miei soggetti attingo all’arte del montaggio”. Com’è la sua architettura?
“Oggi si può costruire spazi, relazioni, funzioni spingendo anche verso comportamenti o mutamenti di relazioni. Ciò non implica, per esempio, costruire. Uno può rifare il piano di una città attraverso il traffico, il verde, gli orari o l’illuminazione. Sicuramente dopo qualche mese la città è molto diversa. Sono temi che a me interessano molto più che fare un grande oggetto, ma questo è un problema personale”.
Nel ‘95/’96 è stato assessore per la qualità urbana: cosa può fare la politica per l’arte?
“La politica per l’arte nulla, proprio nulla. La gente ha imparato a non fare più fatica, c’è n’è troppa che vive di rendita compreso i giovanissimi. Invece è un’epoca in cui tutti bisogna rimettersi a studiare, a guardare gli altri. Penso che più si studi, più si evitino problemi come invidie, razzismo spiccio, problemi religiosi, confronti culturali. Questi verrebbero quasi tutti riassorbiti da un grande progetto collettivo, ma anche dalla competizione, nel senso produttivo del termine: un nigeriano e un coreano avrebbero le stesse chance di produrre le idee, i progetti, di usare la stessa tecnologia”.
Di cosa ha bisogno oggi Milano?
“Milano ha bisogno di giovani. I giovani milanesi credono poco ai loro genitori, che non sono dei buoni esempi: si sono comportati male e hanno rovinato la città. Milano è ancora una delle capitali del mondo per temi molto solidi come la moda, il design, la medicina. E’ necessario che diventi una città che sappia accogliere un po’ meglio chi viene da fuori, che non è la gente che viene qui a lavorare, quella penso sia accolta abbastanza bene. Il problema è chi passa da qui: cambiare gli orari, farla più aperta la notte. La città sta cambiando ma si potrebbe accelerare molto di più questo processo”. (Maggio 2007)

L'ultima battaglia dei Navigli

Marzo 2007



Servizio realizzato dal collaudato team: Cinzia Morgante, Davide Pyriochos e Gianni Marotta

Milano manifesta per la sicurezza

Marzo 2007



Servizio realizzato dal team Cinzia Morgante, Davide Pyriochos e Gianni Marotta

Video e Tg dal Campus Multimedia Iulm-Mediaset

Febbraio 2007

Guarda il TG realizzato durante il master di giornalismo

Jz Art Trading - la galleria d'arte di Zebina

Il coraggio di vivere - Incontro con Mario Melazzini

Dietro le quinte di Casa Mediashopping (da Tg Com)


Pubblicità con giudizio

Ottobre 2006

Servizio realizzato in collaborazione con Davide Pyriochos

Vent'anni di solitudine al Giambellino

Novembre 2006
Catena al collo, piercing appena sotto il labbro, braccia tatuate: “Il mio sogno e’ aprire la pasticceria in America: a Miami, Los Angeles, quei posti là, dove c’e’ sempre il sole, e’ sempre estate. Sarà difficile…per l’inglese poi imparo”. Non ha ancora vent’anni, lavora come pasticcere e al pomeriggio in pizzeria. Lo racconta agli operatori della Comunità del Giambellino, l’associazione che opera nel quartiere dal 1979. “In qualunque quartiere vai ognuno ti dice che il suo è quello più pericoloso, ormai lo è tutta Milano, anzi, tutta l’Italia”.

Occupazione abusiva di appartamenti, penuria di case popolari, microcriminalità e spaccio di droga, mancanza di controllo sociale e isolamento, massiccia presenza di stranieri che spesso fanno fatica ad integrarsi: più si cede terreno al degrado, più il degrado arriva. “Il problema del quartiere e’ nella ricostruzione di un collettivo – spiega Dario Anzani, uno dei coordinatori della Comunità del Giambellino, il responsabile dell'educativa di strada -. Il tessuto connettivo delle relazioni non esiste più, tutti i gruppi sociali sono separati gli uni dagli altri e in competizione tra loro per quelle poche risorse pubbliche che ancora in termini di servizi vengono messe a disposizione”.

Diversamente dalle altre periferie, il Giambellino ha sempre fatto parte del tessuto urbanistico della città. Realizzato nel dopoguerra per offrire case ai lavoratori delle industrie situate lungo il Naviglio Grande e la ferrovia Milano-Mortara, era il quartiere popolare ed operaio simbolo dell’accoglienza, della socialità, della solidarietà. Negli ultimi venti anni, invece, il depotenziamento del ruolo dei centri di aggregazione come le parrocchie e gli oratori e la scomparsa delle attività industriali, delle sezioni dei partiti, delle case del popolo e della piccola distribuzione - unitamente all’aumento del costo della casa e alla concentrazione delle persone con basso reddito nei quartieri periferici - hanno contribuito a creare isolamento, abbandono, degrado. “C’è silenzio, paura, solitudine e eroina”, descriveva così la Milano degli anni Ottanta Giorgio Gaber, che aveva reso celebre il bar del Giambellino vent’anni prima con la sua “Ballata del Cerutti”. La sola via Odazio, infatti, già alla fine dei Settanta, passava per il luogo di spaccio di eroina più grande d’Europa.

“La nostra associazione si è costituita attorno a Renato Rebuzzini, ‘prete di frontiera’ – racconta Dario Anzani – tra i primi a lavorare già dalla metà degli anni ’70 sul fronte della tossicodipendenza nel quartiere Baggio. L’associazione vera e propria è nata qui, noi vogliamo essere i ‘tecnici’ del Giambellino”. Dietro questa definizione, la scelta di lavorare sul territorio per conquistare la fiducia delle persone, conoscere i problemi specifici del quartiere, le sue storie. Tra i settori di intervento, anche quello diretto a prevenire e combattere il disagio giovanile: “E’ un luogo di ritrovo protetto, all’interno del quale i ragazzi possono fare esperienze di aggregazione, autogestione e co-gestione del proprio tempo libero, con l’assistenza dagli operatori. Mettiamo a loro disposizione spazio per iniziative specifiche e consulenza da parte di figure professionali competenti, facciamo educativa di strada, interventi di contrasto della dispersione scolastica, una grossa attività di doposcuola…”.

Il problema scuola si è ancor più acutizzato dagli anni Novanta ad oggi. Prima, racconta Anzani, ogni istituto aveva il suo bacino d’utenza: se l’alunno non poteva frequentare quello del suo quartiere, per cambiare aveva bisogno di un’autorizzazione: “Dopo il ’92, messi di fronte alla possibilità di scegliere dove iscrivere i propri figli, molti hanno preferito iscrivere i bambini alle scuole del centro. La super preoccupazione delle mamme era: “Io mio figlio alla scuola dei poveri e dei delinquenti non lo mando”.

Dal punto di vista dei giovani, tutto ciò esplode: la scuola media non li fa più incontrare, nelle strade non incontriamo più i gruppi di ragazzi che si son conosciuti in classe. In giro troviamo soltanto quelli delle scuole popolari: le prime volte che uscivo in strada dieci anni fa, il 20% dei ragazzi del gruppo non studiava. Adesso abbiamo la percentuale opposta”. E gli altri dove sono? “Sono chiusi in casa, attaccati a internet, con la mamma che li porta a danza e il papà alla scuola calcio, il ‘corsificio’ a cui siamo ormai abituati fin da bambini. Non esiste più il gioco nello spazio pubblico, il gruppo sulla panchina che non e’ condizionato dall’adulto o da un compito”. Secondo il responsabile della Comunità, elementi comuni a questo e ad altri problemi del quartiere, come l’occupazione abusiva delle case e la più generale ed endemica carenza di servizi pubblici, sono il livello bassissimo di comunicazione e la frammentazione sociale: “Non c’e’ solo il racket di chi ti dice quale appartamento occupare o di quelli che occupano mentre il vecchietto proprietario della casa e’ ricoverato in ospedale, ma siamo al punto che i vecchietti sono costretti a pagare affinché questo non succeda mentre escono a far la spesa al mercato”. Una donna rom vive con i suoi figli in una stanza. Sono in tutto 8 persone. Agli operatori della Comunità dice di pagare 484 euro ogni tre mesi. E la paura costante di essere sbattuta fuori casa. A questa poi se ne aggiunge un’altra, più dolorosa dell’indigenza: il timore di vedersi portar via i figli. Sono sempre più numerose, infatti, le donne che decidono di non rivolgersi neppure agli assistenti sociali. “Ci son sempre meno soldi per i servizi pubblici, c’è stato un taglio dei servizi sociali nel corso degli anni in conseguenza di tagli o dirottamenti degli stanziamenti ”, spiega Dario Anzani. “Nella nostra zona ci sono in media sette assistenti sociali e mezzo su un totale di 20mila minori, di cui più di mille in carico ai servizi sociali. Ma ormai il servizio sociale del Comune di Milano funziona soltanto su segnalazione del Tribunale. E perciò non va nessuno a segnalarsi”.

L'arrivo massiccio di stranieri ha poi contribuito a creare diffidenza, chiusura e isolamento. “Non mi sento sicura, c’e’ troppa presenza di zingari e persone non regolari”, si lamenta una giovane mamma con gli operatori. “Io ho paura perché c’e’ in giro di tutto , ci sarà stato anche prima, ma molto meno: drogati, non drogati, italiani, stranieri...” afferma un’altra donna. “Era bello, andavi in giro di sera, anche d’inverno, con la nebbia. Non avevi paura. Adesso sei a casa: cancelli, finestre a doppi vetri, tapparelle di ferro” considera Bianca Tadini, al Giambellino da una vita. I residenti accusano anche la mancanza di controlli e sicurezza nelle strade - “Il vigile di quartiere? Mai visto, chi è, quello che sta all’uscita della scuola?” chiede Claudio. “Al supermarket mi hanno tirato il carrello alla schiena e mi hanno detto: “Brutti italiani, noi comanderemo”, si sfoga una signora -, la sporcizia e l’assenza di rispetto degli spazio pubblici: “Ha cambiato l’armadio…Si può buttare l’armadio dalla finestra alle undici di sera?” si domanda Ione Malpighi. “Dov’e’ Milano pulita? Che se vègnen chi in via Odassio gh’è de mettes i man e i pè in di cavèi!” puntualizza ancora Bianca.
“Buona parte del problema – sottolinea Anzani – sta nell’assenza di una struttura che faciliti l’integrazione, pensata appositamente per far incontrare gli uni con gli altri”. In un mattino come tanti un gruppetto di rom bivacca nei giardinetti pubblici, donne con lo hijab vanno a fare la spesa al mercato comunale, i gestori sollevano le saracinesche delle loro macellerie halal e delle pizzerie, di mercerie e negozi di abbigliamento made in Usa: l’impressione è che il Giambellino sia in trasformazione. Continuare ad investire nelle risorse professionali e umane e valorizzare quelle esistenti è necessario, condividere esperienze e problematiche diverse è essenziale. In una città da sempre in moto perpetuo come Milano, un quartiere che può fare leva sulla sua tradizione di profondi legami sociali può fare da traino per altre realtà analoghe. Il Giambellino potrebbe essere un buon punto di partenza.

Milano City Marathon

Ottobre 2006

Ottobre 2006

Niente cravatte e valigette stamattina a piazza Affari. A riscaldare il cuore di Milano uomini e donne in calzoncini e scarpe da ginnastica. Si sono dati appuntamento per lanciare una scommessa alla città e condividere un'emozione. E' la Milano City Marathon. Audiogalleria realizzata insieme a Davide Pyriochos

Alloggi popolari: un problema grosso quanto una casa






Maggio 2006


Diritto alla casa, sicurezza e riqualificazione dei quartieri popolari. “C’è da dire una cosa: io mi occupo delle case popolari perché sono innamorata, delle case popolari”. E’ Carmela Rozza, dal 1999 Segretario generale del SUNIA-CGIL. Obiettivo del Sindacato Unitario deli Inquilini Assegnatari è la piena integrazione tra periferia e città, un modello urbano basato su solidarietà, decoro e dignità. A Milano il prezzo dei canoni d’affitto è diventato insostenibile: sono aumentati gli sfratti, le morosità, la richiesta di nuove case popolari. Precarietà economica e precarietà abitativa hanno generato la nuova povertà e sono andate a sommarsi al diffuso disagio abitativo di giovani e anziani. Nei quartieri popolari ciò si riflette nel degrado sociale - dovuto spesso alla concentrazione in un unico complesso abitativo di un gran numero di persone o famiglie con grossi problemi di inserimento sociale - ed edilizio, per la mancanza di manutenzioni ordinarie e straordinarie.
“Il disagio si percepisce chiaramente: sulle scale dei caseggiati i giovani rubano soldi, minacciano la sicurezza degli abitanti, spacciano droga, leggera e pesante. Nei quartieri popolari la socialità è di casa, la vita quotidiana è inevitabilmente collegata con quella degli altri, nel bene e nel male – scrive un ragazzo del Corvetto, periferia di Milano, sul bollettino del Sindacato – I giovani che vivono nei quartieri vicini al centro sono più fortunati di quelli di Quarto Oggiaro o di Corvetto: c’è un problema di accesso e di qualità dei servizi e delle opportunità”.
La nuova emergenza casa pone seri problemi agli amministratori locali: non si devono ripetere gli errori del passato - le periferie troppo delocalizzate e separate dal contesto generale della città che hanno fatto dei quartieri popolari dei veri e propri ghetti - e va tenuta in considerazione la presenza di etnie e culture diverse tra i cittadini che hanno bisogno di casa ad affitti contenuti e l’esigenza di migliorare la mobilità.
Il bando pubblico per l’assegnazione degli alloggi è biennale. Sono 16.000 le famiglie che hanno fatto richiesta di casa popolare e delle circa 10.000 sottoposte a sfratto, oltre 1.000 sono costituite da anziani. Non si riesce più a sostenere i costi dell’affitto. La lista d’attesa delle emergenze abitative – ossia quelle situazioni che riguardano lo sfratto o il grave degrado dell’alloggio - è costituita da 2.537 nuclei familiari. I cittadini con sfratto esecutivo, cioè sentenziato dal Tribunale, sono 106. Soltanto nel 2005, a Milano sono stati eseguiti 1.200 sfratti. Tra le persone che hanno perso la casa, 274 sono anziani.
Vanno poi aggiunte le 70.000 famiglie che abitano nel settore privato e che non hanno i soldi necessari per pagare gli aumenti richiesti dal libero mercato. Chi ha stipulato contratti di locazione tra il 2002 e il 2005, infatti, ha dovuto pagare rincari tra il 100 e il 250% rispetto al contratto precedente. Oggi il Comune, secondo i dati forniti dal SUNIA, può disporre di solo 30 appartamenti. In 10 anni ne sono stati costruiti appena 495 destinati all’edilizia popolare e le risorse messe in campo dalla Regione riescono a coprire appena il 45% delle domande. Per giunta, tra il 1991 e il 2001, il caro-casa ha spinto 110mila persone – l’8% dei residenti - a lasciare Milano per trasferirsi nei paesi limitrofi.
Nel maggio 2005, Palazzo Marino ha deliberato la costruzione, nell’arco di dieci anni, di 16.730 alloggi. Tra questi ci sono quelli destinati a famiglie che hanno un reddito non inferiore a 14.500 e non superiore a ai 17.500 euro all’anno. Secondo il regolamento della Regione Lombardia del febbraio dello stesso anno, il canone dovrebbe essere di circa 500 euro al mese, spese escluse. Secondo il SUNIA, si fa riferimento ad un tetto di reddito troppo basso per la maggior parte delle famiglie che non possono accedere, comunque, al mercato privato, e un canone troppo alto per coloro che non hanno i requisiti economici per abitare queste case. Inoltre, le aree individuate dal Comune per la costruzione di case a canone moderato sono attualmente occupate da attività di interesse pubblico, come mercati comunali, piccoli parchi o aree verdi, parcheggi pubblici ATM. Alcune sono vincolate al Naviglio, altre ancora sono attraversate dai tralicci degli elettrodotti – quindi dannose per la salute dei cittadini -, in via Calvino c’è addirittura un’area a vincolo cimiteriale.
Ulteriore problematica degli alloggi popolari è l’abusivismo. Oltre il 10% dei cittadini che risiede a Milano vive nelle case popolari. In tutto sono circa 133.000 persone. In questo dato sono compresi anche 21mila cittadini che occupano 9mila case direttamente gestite dallo Stato. L’occupazione illegale delle case popolari ALER conta circa 4.600 persone. Per il SUNIA sono necessari provvedimenti urbanistici e nuove leggi sull’affitto in grado di trasformarsi anche in uno strumento economico per i soggetti privati che scelgono di investire le proprie risorse nel settore. Per Carmela Rozza va favorita la convivenza di famiglie di diverse estrazioni sociali: “Deve essere il punto fondamentale attorno al quale realizzare i nuovi quartieri popolari e riorganizzare quelli già esistenti”. Sindacati e comitati devono farsi strumento di partecipazione e vera informazione per i cittadini dei quartieri. “Solo in questo modo, dalle istituzioni, si può pretendere informazione e trasparenza”.

Studentesse, centraliniste e colf: chi non ti aspetti al dormitorio


Maggio 2006

Le hanno “fregato” i jeans. Li aveva stesi ad asciugare la sera, nel Centro di prima accoglienza per donne in difficoltà di via Isonzo, il dormitorio femminile. La mattina successiva urlava come una forsennata: non c’erano più. “Ho due figlie, di undici e quindici anni, vivono in Calabria, in collegio. Avevo uno stipendio prima, 1400 euro al mese, anche 2000, e la casa. Mi ha rubato tutto il mio ex marito, che ora sta con un’altra, una ricca”. Siciliana, una quarantina di anni, molti passati negli istituti. “Sai che ti dico? – Si batte una mano sul petto - Domani faccio un giro, vedrai che qualche lavoro lo trovo”.
Il dormitorio apre alle 20.00. Davanti alla porta anche Graziella, arrivata a Milano lo scorso febbraio: “Ho ancora due borse con la mia roba a Torino. Ora lavoro in un call-center ma devo trovare altro, il mio è un “contratto a progetto”, non posso andare avanti così”. Dimostra una cinquantina di anni, tuta da ginnastica di quelle che andavano qualche anno fa, un mollettone arancione nei capelli. Saluta, scherza e si intrattiene con tutte, chiama le ragazze più giovani, si fa raccontare la loro giornata, se hanno trovato lavoro. Una ragazza rumena le offre una sigaretta, ne accettano una anche le altre, si ritrova a dividerle con un gruppetto di persone: “Andateci piano, non ho i soldi per ricomprarle domani”. La rumena si appoggia con le spalle al muro, apre un libricino con il programma delle riforme varate dal Governo Berlusconi e legge i paragrafi relativi alla legge Biagi, quella sul mercato del lavoro, ed alla Bossi-Fini, sull’immigrazione.
Ad aspettare con lei, una connazionale, che intanto ne approfitta per cenare: una scatola di formaggini. Ventisei anni, racconta che “In Romania si fa la fame” ed in Italia è venuta per studiare. Non sa perché abbia scelto questo Paese, è preoccupata perché deve trovare urgentemente da lavorare: “A che serve sognare? E’ stupido chi sogna, di cosa campa? La realtà non è un sogno”.
Più in là gruppetti di donne di colore, dei Paesi dell’Est, aspiranti colf o badanti. Arriva per ultima una ragazza con una busta in una mano ed un secchio di plastica pieno di quaderni nell’altra. E’ milanese, ha quattro sorelle, sono rimaste sole dopo la morte della mamma. “Se non ci fosse questo posto avrei solo la strada”, dice. Ha perso il lavoro sei mesi fa, l’anziana che accudiva è morta. E da sei mesi ha piazzato la sua offerta di lavoro sul giornale degli annunci: “Ieri sono andata in edicola, l’ho sfogliato ed ho visto che è il primo dell’elenco, è anche evidenziato”. Tira giù la zip della giacca a vento e mi mostra un cellulare tenuto insieme da tre giri di nastro adesivo: “Lascio il cellulare sempre acceso ma nessuno mi chiama. Prima era molto più facile trovare lavoro, ora con tutte queste straniere…”. I quaderni le servono per studiare, segue un corso patrocinato dalla Regione Lombardia per gli assistenti socio-sanitari, a giugno avrà gli esami.
Si parla di caro-affitti, del sogno di una stanza a Milano, delle banche che non concedono mutui, del lavoro che non si trova o che, ad ogni modo, non da sicurezza. E vita concepita come fatica. “Il 10 prendo il primo stipendio – urla Graziella sul marciapiede di via Isonzo, sempre più gremito – vengo qui, offro sigarette a tutte e me ne vado”. Intanto, entra.
All’ingresso, ognuna passa per la stanza dell’assistente sociale, ritira una chiave ed entra in uno stanzone dove ha diritto all’uso di un armadietto di ferro ed un posto nei letti a castello. Nel mezzo della notte, una nigeriana arriva trafelata nell’ufficio per salutare. Parte, va a Novara a raggiungere il marito che forse le ha trovato un lavoro, ha fretta, deve presentarsi già l’indomani mattina. Una busta di plastica per ciascuna mano, neanche il tempo di infilarsi le scarpe: corre verso la fermata dell’autobus in ciabatte. E buona fortuna.
Il lavoro è la principale preoccupazione di queste donne, soprattutto perché è l’ultima notte dell’ “Emergenza freddo”. Dal 15 novembre al 31 marzo, dormire, fare la doccia e lavare gli indumenti in questo centro non comporta alcuna spesa per le ospiti, soltanto la dichiarazione – l’invio – dell’assistente sociale. Dal primo di aprile, invece, sono necessari fino a cento euro al mese, contributo comunque personalizzabile, a seconda della disponibilità economica dell’utente. E’ possibile ospitare 65 donne, per periodi di tre mesi, termine rinnovabile, a seconda dei casi.
Rispetto agli uomini, trovare vitto e alloggio assieme al lavoro per loro è più facile, basti pensare a quante prestano assistenza agli anziani o vengono assunte come collaboratrici domestiche. I primi, invece, sono costretti ad accontentarsi di lavori saltuari, stagionali – la raccolta dei prodotti agricoli, per esempio -, ad ogni modo precari.
Circa 5000 sono i senzatetto nella sola Milano, gli “homeless”. Alcuni vengono accolti nei dormitori cittadini, oltre a quelli dei Fratelli di San Francesco, quello pubblico di Viale Ortles. Moltissimi di loro dormono all’aperto o nelle aree dismesse, nei vecchi capannoni, nelle case sgomberate. Non solo extracomunitari, in maggioranza provenienti dai Paesi dell’Est, dall’Africa, dall’America Latina. Anche tanti pensionati che non arrivano a fine mese, separati senza lavoro che non ricevono gli alimenti dall’ex coniuge, mamme con i bambini. Frequentano le mense dei poveri, usufruiscono dei servizi di docce e cambio di abito, dei tanti servizi assistenziali e sanitari messi a disposizione anche dall’Opera San Francesco. “E’ la “nuova povertà”: molti sono qui all’insaputa dei parenti, dei figli”, afferma Marina Nava, responsabile dell’Ufficio stampa. Gente che non ti aspetti, che incontri sull’autobus al mattino e non vedi nemmeno. Poi ci sono i disperati che ti aspetti: rifugiati, profughi, richiedenti asilo. E persone con problemi di integrazione, di natura sociale e psichica, tossicodipendenti, alcolizzati, ex carcerati. “Essenziale, oltre ad offrire da mangiare, docce e vestiti, assistenza sanitaria, è l’ascolto – prosegue Marina Nava -, l’attenzione alla loro dignità spesso perduta a causa dell’indigenza”.
Tra le persone in fila in via Kramer c’era un peruviano. Faceva il parrucchiere, nel suo Paese. In coda per la mensa, dispiegava il suo lenzuolino, impugnava le forbici e tagliava i capelli ai connazionali. Un po’ come sentirsi a casa.