martedì 31 luglio 2007

Studentesse, centraliniste e colf: chi non ti aspetti al dormitorio


Maggio 2006

Le hanno “fregato” i jeans. Li aveva stesi ad asciugare la sera, nel Centro di prima accoglienza per donne in difficoltà di via Isonzo, il dormitorio femminile. La mattina successiva urlava come una forsennata: non c’erano più. “Ho due figlie, di undici e quindici anni, vivono in Calabria, in collegio. Avevo uno stipendio prima, 1400 euro al mese, anche 2000, e la casa. Mi ha rubato tutto il mio ex marito, che ora sta con un’altra, una ricca”. Siciliana, una quarantina di anni, molti passati negli istituti. “Sai che ti dico? – Si batte una mano sul petto - Domani faccio un giro, vedrai che qualche lavoro lo trovo”.
Il dormitorio apre alle 20.00. Davanti alla porta anche Graziella, arrivata a Milano lo scorso febbraio: “Ho ancora due borse con la mia roba a Torino. Ora lavoro in un call-center ma devo trovare altro, il mio è un “contratto a progetto”, non posso andare avanti così”. Dimostra una cinquantina di anni, tuta da ginnastica di quelle che andavano qualche anno fa, un mollettone arancione nei capelli. Saluta, scherza e si intrattiene con tutte, chiama le ragazze più giovani, si fa raccontare la loro giornata, se hanno trovato lavoro. Una ragazza rumena le offre una sigaretta, ne accettano una anche le altre, si ritrova a dividerle con un gruppetto di persone: “Andateci piano, non ho i soldi per ricomprarle domani”. La rumena si appoggia con le spalle al muro, apre un libricino con il programma delle riforme varate dal Governo Berlusconi e legge i paragrafi relativi alla legge Biagi, quella sul mercato del lavoro, ed alla Bossi-Fini, sull’immigrazione.
Ad aspettare con lei, una connazionale, che intanto ne approfitta per cenare: una scatola di formaggini. Ventisei anni, racconta che “In Romania si fa la fame” ed in Italia è venuta per studiare. Non sa perché abbia scelto questo Paese, è preoccupata perché deve trovare urgentemente da lavorare: “A che serve sognare? E’ stupido chi sogna, di cosa campa? La realtà non è un sogno”.
Più in là gruppetti di donne di colore, dei Paesi dell’Est, aspiranti colf o badanti. Arriva per ultima una ragazza con una busta in una mano ed un secchio di plastica pieno di quaderni nell’altra. E’ milanese, ha quattro sorelle, sono rimaste sole dopo la morte della mamma. “Se non ci fosse questo posto avrei solo la strada”, dice. Ha perso il lavoro sei mesi fa, l’anziana che accudiva è morta. E da sei mesi ha piazzato la sua offerta di lavoro sul giornale degli annunci: “Ieri sono andata in edicola, l’ho sfogliato ed ho visto che è il primo dell’elenco, è anche evidenziato”. Tira giù la zip della giacca a vento e mi mostra un cellulare tenuto insieme da tre giri di nastro adesivo: “Lascio il cellulare sempre acceso ma nessuno mi chiama. Prima era molto più facile trovare lavoro, ora con tutte queste straniere…”. I quaderni le servono per studiare, segue un corso patrocinato dalla Regione Lombardia per gli assistenti socio-sanitari, a giugno avrà gli esami.
Si parla di caro-affitti, del sogno di una stanza a Milano, delle banche che non concedono mutui, del lavoro che non si trova o che, ad ogni modo, non da sicurezza. E vita concepita come fatica. “Il 10 prendo il primo stipendio – urla Graziella sul marciapiede di via Isonzo, sempre più gremito – vengo qui, offro sigarette a tutte e me ne vado”. Intanto, entra.
All’ingresso, ognuna passa per la stanza dell’assistente sociale, ritira una chiave ed entra in uno stanzone dove ha diritto all’uso di un armadietto di ferro ed un posto nei letti a castello. Nel mezzo della notte, una nigeriana arriva trafelata nell’ufficio per salutare. Parte, va a Novara a raggiungere il marito che forse le ha trovato un lavoro, ha fretta, deve presentarsi già l’indomani mattina. Una busta di plastica per ciascuna mano, neanche il tempo di infilarsi le scarpe: corre verso la fermata dell’autobus in ciabatte. E buona fortuna.
Il lavoro è la principale preoccupazione di queste donne, soprattutto perché è l’ultima notte dell’ “Emergenza freddo”. Dal 15 novembre al 31 marzo, dormire, fare la doccia e lavare gli indumenti in questo centro non comporta alcuna spesa per le ospiti, soltanto la dichiarazione – l’invio – dell’assistente sociale. Dal primo di aprile, invece, sono necessari fino a cento euro al mese, contributo comunque personalizzabile, a seconda della disponibilità economica dell’utente. E’ possibile ospitare 65 donne, per periodi di tre mesi, termine rinnovabile, a seconda dei casi.
Rispetto agli uomini, trovare vitto e alloggio assieme al lavoro per loro è più facile, basti pensare a quante prestano assistenza agli anziani o vengono assunte come collaboratrici domestiche. I primi, invece, sono costretti ad accontentarsi di lavori saltuari, stagionali – la raccolta dei prodotti agricoli, per esempio -, ad ogni modo precari.
Circa 5000 sono i senzatetto nella sola Milano, gli “homeless”. Alcuni vengono accolti nei dormitori cittadini, oltre a quelli dei Fratelli di San Francesco, quello pubblico di Viale Ortles. Moltissimi di loro dormono all’aperto o nelle aree dismesse, nei vecchi capannoni, nelle case sgomberate. Non solo extracomunitari, in maggioranza provenienti dai Paesi dell’Est, dall’Africa, dall’America Latina. Anche tanti pensionati che non arrivano a fine mese, separati senza lavoro che non ricevono gli alimenti dall’ex coniuge, mamme con i bambini. Frequentano le mense dei poveri, usufruiscono dei servizi di docce e cambio di abito, dei tanti servizi assistenziali e sanitari messi a disposizione anche dall’Opera San Francesco. “E’ la “nuova povertà”: molti sono qui all’insaputa dei parenti, dei figli”, afferma Marina Nava, responsabile dell’Ufficio stampa. Gente che non ti aspetti, che incontri sull’autobus al mattino e non vedi nemmeno. Poi ci sono i disperati che ti aspetti: rifugiati, profughi, richiedenti asilo. E persone con problemi di integrazione, di natura sociale e psichica, tossicodipendenti, alcolizzati, ex carcerati. “Essenziale, oltre ad offrire da mangiare, docce e vestiti, assistenza sanitaria, è l’ascolto – prosegue Marina Nava -, l’attenzione alla loro dignità spesso perduta a causa dell’indigenza”.
Tra le persone in fila in via Kramer c’era un peruviano. Faceva il parrucchiere, nel suo Paese. In coda per la mensa, dispiegava il suo lenzuolino, impugnava le forbici e tagliava i capelli ai connazionali. Un po’ come sentirsi a casa.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e