lunedì 2 aprile 2012

Tu prova ad avere un mondo nel cuore

Il bigliettino spiegazzato mi raggiunge al tavolino di un bar mentre prendo un caffè a un'ora improponibile con una mia amica. In passato abbiamo lavorato insieme in carcere, proprio in quello da cui è partito il foglietto per me. "Devi tornare a trovarli, Ci'", mi fa, mentre penso a quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui l'ho fatto e mi sento precipitare dentro.

"Da quando ho scoperto l'arte, questa cella mi è diventata una prigione": la frase, forse la più toccante e illuminante di tutte, è nel film dei fratelli Taviani 'Cesare deve morire', che sono andata a vedere al cinema qualche giorno fa. Da sola, senza amici intorno, senza sorelle, né l'Errante. Gelosa come stessi guardando qualcosa che è intimamente mio, perché incrociare occhi, respirare odori, avere lo sguardo spezzato, conoscere storie di chi in galera ci vive è quanto di più bello mi sia mai capitato. Tra le critiche che sono state mosse alla pellicola vincitrice dell'Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino, c'è quella di non aver denunciato il grave problema del sovraffollamento degli istituiti di pena italiani. Personalmente, non credo sia questa la missione del film. Ai miei occhi non è infatti un film di denuncia, bensì un documentario magistrale che incontra la grandezza del cinema fatto da due maestri. Trovo invece sia vergognoso che della situazione delle carceri si parli poco, troppo poco. Releghiamo alla cronaca i suicidi di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, ignoriamo le problematiche degli uni e degli altri, non ultima la battaglia sindacale per incrementare il numero di questi ultimi e la presa in considerazione di  misure alternative alla detenzione per i primi. Una vergogna che non dovrebbe esistere in un Paese civile e democratico: basti pensare al fatto che (stando agli ultimi dati diffusi dal rapporto di Caritas Ambrosiana), a livello europeo, in termini di sovraffollamento, l'unico Paese a star peggio di noi è la Bulgaria, da cui ci separa uno scarto di appena 3 punti percentuali. Il 31 dicembre 2011 (continua il rapporto) le persone detenute nei 206 istituti di pena italiani erano 66.897, a fronte di una capienza regolamentare complessiva dichiarata di 45.700 posti. Il tasso di affollamento delle carceri italiane è del 146%, ciò vuol dire che per ogni 100 posti disponibili sono detenute in cella 146 persone: per un detenuto su tre non c'è posto. Una situazione insopportabile, che ha portato nel 2009 la Corte europea dei diritti dell'uomo a condannare l'Italia perché la detenzione in queste condizioni rappresenta un trattamento "inumano e degradante". Dati che porterei dritta dritta sulla scrivania di un caporedattore di un noto settimanale femminile italiano, che lo scorso dicembre mi ha dato della "criminale", al telefono, quando gli ho proposto un articolo su un progetto di reinserimento dei detenuti che prevedeva la costituzione di band musicali e compagnie teatrali. "Si rende conto? Ma si vergogni!". E ha messo giù. Avrei tanto voluto chiedergli cosa farebbe se fosse genitore di un figlio che ha sbagliato, ha pagato per l'errore commesso e che cerca con non poca fatica il suo posto nel mondo.

"A Cinzia, che tutti possono vedere quando vogliono e io no", c'è scritto nel mio bigliettino. Un po' poesia, un po' rimprovero, ma quanto mondo dentro.

Il 6 aprile. Ci siamo, rieccolo alle porte. I miei amici mi chiamano, ci stringiamo e ci lasciamo sconquassare dai ricordi che non passano mai, dalle cicatrici dure a rimarginarsi. Nei giorni scorsi per L'Aquila ha gironzolato David Grossman. "Con voi posso condividere il dramma che ha colpito la mia famiglia sei anni fa - ha detto facendo riferimento alla morte in guerra del figlio Uri -. Perché in voi vedo il mio stesso dolore, il mio personale e quello della mia terra, Israele". Ha poi visto le chiavi degli aquilani, ancora appese in segno di protesta a una transenna sul corso: come i palestinesi all'ingresso dei campi profughi. La scena lo ha molto impressionato.

Si avvicina il 6 aprile, ci siamo, rieccolo. Piangersi addosso e sul latte versato mi fa uscire dai gangheri come poche altre cose. Metto qui allora la chiusa del bell'articolo di Aldo Cazzullo, sul Corriere di oggi: "Anche l'Italia, come L'Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare - scrive -. Anche l'Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse - a cominciare dai suoi giovani - per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c'è anche un Paese che tiene, c'è anche un Italia che - proprio come L'Aquila - resiste". Hag Pesach Sameach.

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