lunedì 10 ottobre 2011

I destini che abito

Di rara bruttezza, come ho detto appena uscita dal cinema. Inconcludente, superficiale, a tratti scontato, freddo, prevedibile, furbo, piatto, senza smalto. Parlo dell'ultimo film di Pedro Almodòvar, La pelle che abito, e lo dico subito, tanto per mettere in chiaro dove sto andando a parare.

Premessa: amo Almodòvar e sono arrivata al cinema per sprofondare nelle sue pieghe, nei suoi parallelismi, nelle sue voragini affettive, nei suoi personaggi, nelle loro essenze profondissime o anche solo riempirmi gli occhi della fotografia, caldissima, quel rosso, arancio e blu, che trovo in tutti i suoi film (e che, appunto, ribadisco, amo). Ma non l'ultimo, l'ultimo no, pietà. Ho sofferto davvero, seduta in quelle poltrone tremende. Roba da uscire, tanto per non avere conferme dai titoli di coda.

Mio fratello ha tirato fuori la teoria della curva gaussiana. Vale per tutti, mi fa: scrittori, musicisti, registi. Si arriva all'apice e poi, inesorabilmente, tocca scendere. La mia amica ci ha visto dentro un'accozzaglia di temi importanti, appena abbozzati ma mai approfonditi, troppi tutti insieme e sprecati: dalla transgenesi allo stupro, dalla patologia psichica alla violenza psicologica, la sete di vendetta che si fa abbrutimento, la sofferenza del corpo e dello spirito davanti alla prorompenza di un'identità sessuale che non è quella che appare, il rapporto vittima/carnefice, e chissà quant'altro mi sfugge.
Lo racconto al telefono anche alla mia sorella nell'arte e nella vita, che è Andy. Tempo qualche ora e mi piomba in casa con uno dei suoi budini migliori: un odor di vaniglia che, ci scommetto, avrà dato la sveglia all'intero palazzo. "Querida - mi sbertuccia dal citofono - siamo in tre: il gay, l'ebreo e la nera. Facci salire che il prossimo film di Pedro lo si gira a casa tua".

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