lunedì 29 novembre 2010

Nel grembo della terra ho seminato un grido. Cinque

Una coltellata. Una piaga che si riapre. Anzi, che non è chiusa (e come mai potrebbe esserlo?). Sentirti parlare di terremoto, del mio terremoto e de L'Aquila mi fa un effetto strano, da te. E' come mi afferrassi per le viscere svuotandomi, lasciandomi esanime, infliggendomi ferite, squarciando carne viva. Ti ascolto, non posso farne a meno ma è come mi stessi schiacciando e rischiacciando. Spesso mi viene chiesto com'è, com'è stato, come sto, come stanno, gli aquilani. E io avverto la stessa sensazione: una mano che mi profana, mi si avvinghia dentro e tira, tira.
Sono tanto fiera quanto gelosa delle mie origini. Guai a toccarmele, guai a spingersi oltre senza lasciapassare. Ho gettato l'atomica sopra una relazione durata anni appena mi hanno attaccato sulla mia essenza, sulle radici. Solo quelle forti, solo quelle profonde portano lontano, stillano linfa, non ti fanno cadere, danno un senso alla tua vita e sostentamento ai sogni. E, di conseguenza, sono quelle forti che suscitano invidie, scatenano cattiverie. Le radici profonde non gelano, mi ha insegnato la mia amica Stefania.
Sto costruendo qualcosa ora con chi la pensa come me, con chi soffre sofferenze indicibili per essere obbligato alla lontananza, forzato e costretto non per scelta, a differenza di me.
Ma sentire parlare de L'Aquila, raccontare quel dolore - che per me è unico, speciale, imparagonabile a nulla - mi destabilizza, mi riporta indietro a quella notte, in cui ho ricevuto la telefonata di mio padre poco dopo perché "Ho avuto pensiero che se l'avessi appreso dalla televisione avresti fatto un colpo. Siamo vivi, tutti". Prima di tutto, prima di tutto il resto. L'immagine di mio fratello sotto il letto, la mia amica che è rimasta giorni per strada, lo choc di una mia cugina, quell'altra scappata a Firenze, il mio migliore amico disperso per giorni, mia madre squassatadalla paura, mia nonna rassegnata ("Se è così che deve essere, così sia") e la freddezza di mio babbo, ancorato anche a quello, anche al suo terremoto. Perché non si trattava di aiutare a scavare gente - come ha fatto in Irpinia -, di aiutare la popolazione - come ha fatto in Umbria -, stavolta il terremoto era nostro e pertanto andava affrontato a viso aperto, con il mondo che ti balla sotto i piedi e travolge la vista e quel sibilo fortissimo nelle orecchie, quel vento che vento non è che fischia forte. E' un dolore che non è paragonabile a un lutto, non è paragonabile al dolore che si prova con la malattia, al dolore che si prova in qualsiasi altra cosa. E' un dolore unico, nel suo genere. E gridi e tiri pugni e ti disperi quando non ce la fai più. Ma non passa mai.

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